giovedì 28 giugno 2012


LE LAMPADE (LEVITICO 24:1)

Levitico 24:1 Il Signore disse ancora a Mosè: 2 «Ordina agli Israeliti che ti portino olio puro di olive schiacciate per il candelabro, per tenere le lampade sempre accese. 3 Aronne lo preparerà nella tenda del convegno, fuori del velo che sta davanti alla testimonianza, perché le lampade ardano sempre, da sera a mattina, davanti al Signore. È una legge perenne, di generazione in generazione. 4 Egli le disporrà sul candelabro d'oro puro, perché ardano sempre davanti al Signore.

È probabilmente l’estate che sollecita tematiche relative alla luce e al vedere, ed il passo in cui mi sono imbattuto questa settimana, e che mi ha colpito, riguarda delle lampade. Mi ero scordato della presenza nel santuario di queste lampade che, lungi dall’essere semplici elementi decorativi, hanno una funzione simbolica molto importante, che analizzeremo. Del resto, la simbologia non solo della luce, ma proprio della lampada, che brucia qualcosa e che è fatta di fuoco, ha numerose eco sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, e vorrei metterne “in luce” (è il caso di dirlo) alcune. Questo testo non ci dice niente sul significato di queste lampade e si limita ad ordinare a Mosè di predisporle; possiamo quindi cercare di farci guidare dallo spirito per coglierne la possibile portata simbolica.

  1. La combustione perenne.
Più volte nel testo si sottolinea la necessità che la combustione di queste lampade debba essere continua. Devono essere “sempre accese”, devono “ardere sempre, da mattina a sera” ed è una legge “perenne da tramandare di generazione in generazione”. Sono simili alle torce della tomba al milite ignoto che troviamo nell’Altare della patria a Roma, che ugualmente tentano di tenere viva la memoria dei caduti per la patria. Ci sono diversi sensi possibili in questa continuità, ed il primo è sicuramente quello per cui la presenza divina si protrae nel tempo, che vedremo. Ma queste lampade che bruciano di continuo mi hanno fatto venire in mente un importante episodio dell’Antico Testamento, quello in cui Mosè vede un pruno bruciare senza consumarsi. Delle lampade che bruciano olio continuamente ci danno l’idea di un Dio che non si può fissare in un’immagine statica e definita, ma di un Dio che si muove, che si agita come una fiamma e che si può guardare senza però toccarlo o afferrarlo, a costo di bruciarsi. Se queste lampade rappresentano in qualche modo la presenza di Dio, ci presentano un Dio infinito che si manifesta di continuo, ma che non si finisce mai di conoscere. Ci piacerebbe bloccare Dio nella pagine di una summa teologica o nella nitidezza di un’immagine... Ma Dio, che non è indefinito, e che si fa conoscere, resta l’infinito. L’infinito che brucia e che accende il cuore, lo spirito, la mente di chi lo osserva. È un vero peccato che nelle chiese cattoliche si sia costruita una teologia mortuaria intorno alle candele, perché se dovessi scegliere una bella immagine da mettere in una chiesa, sarebbe proprio quella di un fuoco, di una torcia che dia l’ardore dell’infinità di Dio, e del continuo ardore che sprigiona. Avviciniamoci ogni giorno a Dio consapevoli che la sua conoscenza non si esaurisce, è infinita. Abbandoniamo le nostre idee preconfezionate su di lui, lasciamo che il fuco le bruci e che Dio ci si riveli in modi sempre nuovi. Perché se è vero che Dio non cambia, noi cambiato spesso, ed il modo in cui lui ci si rivela cambierà nel corso della vita.

  1. La luce della testimonianza.
Un noto passo del nuovo testamento, Matteo 5, 15-15, ricorda a chi vuol eseguire Gesù che i credenti sono la luce del mondo, e continua con la similitudine di una lampada che non può essere nascosta sotto un vaso, ma deve illuminare. La lezione che trasmette è che la vita di chi dice di credere deve essere luminosa, una fonte di luce che aiuta chi sta intorno a vedere e a trovare strade. Le lampade del santuario descritto nel libro del Levitico funzionano di continuo, ma la scansione temporale indicata è dalla sera fino alla mattina, quindi capiamo che servono ad illuminare la notte. Queste fiamme vive, simbolo della presenza del Dio infinito, illuminano continuamente le varie parti del santuario, la tenda di convegno ed il resto e ricordano all’ebreo che frequenta il tempio che Dio è là, capace di illuminare la sua vita. Gesù si è fatto egli stesso luce, ed ha trasmesso a chi crede in lui questa facoltà di illuminare il resto del mondo, proprio come quelle lampade che erano un segno per gli ebrei come anche per i popoli cananei circostanti.
Se Dio ci ha illuminati con la sua luce, se ci ha fatto bruciare con un fuco vivo, ecco che racconteremo di lui, della sua presenza della nostra vita, della sua luminosità. Ma questo ci deve fare interrogare di continuo sulla nostra “luminosità”. Che razza di lampade siamo? Lumicini a pochi watt che illuminano poco e abbassano la vista, o lampade forti, a 100 watt capaci di facilitare la vita di chi le usa? Cosa producono le nostre parole? Rabbia, opposizione, indifferenza? Se non riusciamo ad illuminare niente e nessuno, se ci trovano pedanti e bigotti, significa che non sappiamo illuminare, che forse pensiamo solo ad illuminare noi stessi, o a contemplare la nostra lampada, ma che la nostra luce è sotto un vaso. Certamente esistono persone che rifiutano la luce, ma se veramente non illuminiamo nessuno, un esame di coscienza va fatto. Forse scopriremo che pensiamo di essere luci, ma che non contempliamo abbastanza la luce, come i farisei che erano guide cieche di ciechi. Illuminare la vita degli altri non significa solo parlare del vangelo. Può voler dire poter essere un riferimento per chi è in crisi, una persona che ascolta, uno che semplicemente dà una mano nel bisogno. E che facendo queste buone opere, illumina la vita degli altri. Perché Gesù ha parlato di vite luminose più che di persone luminose. Cerchiamo allora di essere veramente lampade che illuminano, che non si scaricano e che mostrano nelle azioni quotidiane della vita di ogni giorno cosa sia una vita illuminata. Il nostro stile di vita può essere luminoso, o buio. Se scegliamo di vivere solo di divertimenti, di riempirci dei diversi beni che la società dei consumi ci mette davanti, correndo dietro le ultime offerte, o avendo come massimo ideale una bella casa, una bella famiglia ed una macchina veloce, è difficile che possiamo portare molta luce. La luce illumina, fa vedere cosa manca, e fa riflettere chi la guarda.
Pensiamo allora ancora alle lampade del santuario, che continuamente bruciano olio puro e danno luce a chi le guarda. Che lampade vogliamo essere? Far vedere Dio che nel santuario israelita si rivelava, o far vedere altro, cioè idoli? La risposta è nella nostra vita.

  1. L’olio puro.

La prima cosa che mi è venuta in mente quando ho letto il passo di queste lampade, che pure mi aveva colpito per la sua brevità, è stata che queste lampade dovevano costare molto care, e che bruciare tutto quell’olio sembrava quasi uno spreco. Nella nostra cultura l’olio d’oliva è talmente pregiato e caro che difficilmente si pensa a farne un uso combustibile, e questa preziosa e naturale risorsa ha lasciato il posto ad altri oli: al petrolio, alla benzina, all’alcool, decisamente meno cari oggi e ben più dannosi per l’ambiente. È comunque interessante vedere che nei passi in cui si parla delle lampade si sottolinea che il combustibile per queste lampade deve essere portato dagli israeliti e che deve essere puro. Non tagliato con oli meno pregiati e frutto del lavoro e della fatica degli uomini, che raccolgono, trasportano e pressano. In questa operazione di testimonianza, di rappresentazione di Dio il popolo è implicato e lo è in modo collettivo. Il libro del levitico, dal nome stesso è un libro che racchiude norme per i sacerdoti e per i leviti, cioè per i servitori del tempio, quindi per gli addetti del santuario, per così dire. Ma il popolo non è escluso dal suo mantenimento e tutto quel che riguarda il “materiale” che il santuario consuma, come cibi, animali ed olio in questo caso è il frutto del lavoro del popolo, che non è quindi staccato dal funzionamento del santuario. Se quindi vogliamo pienamente essere queste lampade, che trasmettono un’idea di Dio, che illuminano la vita degli altri, non possiamo non pensare attentamente all’olio che siamo disposti a dare al Signore. L’olio delle nostre risorse personali, dei nostri soldi, delle nostre case, del nostro tempo, dei nostri corpi. E non solo. Deve essere olio puro, non quell’olio che ci viene da surrogati. In altre parole, al Signore dobbiamo dare sistematicamente quello che ci chiede, non il resto di quello che ci avanza. Il meglio delle nostre capacità, il meglio della nostra vita.

Conclusione
Forse tanti di noi non si sentiranno all’altezza delle richieste fatte, tanti penseranno di non essere lampade adeguate. Ricordiamoci della bella immagine di Apocalisse 1, 20: Le chiese sono lampade, e per quanto le sette chiese descritte dall’apocalisse abbiano tutte un qualche difetto (eccedo una), il Signore non smette di tenere la lampada accesa e di servirsi di loro. Brilliamo quindi nella fiducia che noi possiamo al massimo alimentare il fuoco, posizionarlo meglio, proteggerlo dal vento: ma la combustione della fede è opera di Dio, e  Dio stesso la porta avanti in chi crede.


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