martedì 25 settembre 2012


LA SFIDA DI EBREI 6, 1-12

Nel programma di predicazioni che scandisce i tempi di questa comunità, ci si trova più o meno fra il primo e il secondo capitolo della Lettera ai Galati – uno dei capisaldi della dottrina paolina sulla salvezza che si acquisisce per sola fede e senza l’ausilio delle opere della legge. Per questa riflessione, però, la scelta è ricaduta su un testo che sembra praticamente azzerare tutto quanto Paolo scrive in questa e in altre sue lettere: Eb. 6:1 – 12, un testo che difficilmente è oggetto di predicazioni o di studi biblici. Ad una prima lettura sembra che l’autore di questa epistola – che soltanto una tradizione tardiva e alquanto incerta ha attribuito a Paolo – stia sottolineando con una forza tutto sommato abbastanza inedita, nel Nuovo Testamento, l’importanza fondamentale delle opere per la salvezza. E questo sembra contraddire non soltanto il messaggio della lettera ai Galati, né soltanto il messaggio di Paolo, ma un po’ tutto il messaggio dell’evangelo. E’ un testo davanti al quale ogni credente di impostazione riformata non può non fermarsi a riflettere. E penso che proprio per questa sua caratteristica è un testo che viene letto e studiato poco. Ma questa è una mancanza, che porta alla Chiesa non poche conseguenze negative – e queste conseguenze non hanno certo a che fare con il fatto che i credenti prestano meno attenzione al loro cammino di personale santificazione e consacrazione.

Procedendo con ordine, per comprendere un testo come questo, non si può evitare di dire due parole sulle sue caratteristiche più estrinseche, e sulle vicende che stanno dietro al fatto che noi possiamo leggere questo scritto nelle nostre Bibbie, dove è inserito a pieno titolo fra i libri del Nuovo Testamento. Una cosa che non è affatto così scontata. Lutero – colpito da passi come questo e altri – la pose in fondo, quasi in appendice alla sua traduzione in tedesco della Bibbia, accanto agli altri testi che reputava di dubbia canonicità, vale a dire le lettere di Giacomo e di Giuda e l’Apocalisse; ma i suoi dubbi non derivavano solo dal fatto che sembrava contraddire la dottrina da lui riscoperta, e a lui tanto cara, della giustificazione per fede, ma anche per ragioni che rendono oggettivamente problematica l’inserzione di questo testo nel canone. In effetti Ebrei è una lettera a suo modo enigmatica e misteriosa. In primo luogo, è del tutto da vedere se siamo davvero di fronte ad una “lettera”. Sicuramente si conclude come una lettera, e nel corpo della trattazione presenta molti aspetti tipici della letteratura epistolare, c’è un voi, a cui l’autore si rivolge. Ma l’inizio non è affatto quello di un’epistola, sembrerebbe piuttosto di essere di fronte ad una specie di sermone, o di piccolo trattato. Che però, appunto, un po’ misteriosamente poi si conclude come una lettera con dei saluti – che non si sa però chi è che manda, e a chi. Perché anche l’autore, la paternità di questo scritto, è oggetto di numerosi interrogativi. L’attribuzione a Paolo è tardiva e improbabile, sono stati proposti – fin dall’antichità – molti nomi, ma nessuno risulta del tutto convincente. E certamente è problematico di uno scritto canonico non conoscere l’autore dato che, uno dei criteri per riconoscere la canonicità di uno scritto neotestamentario è proprio che il suo autore sia un apostolo (cosa che rende il libro “per diritto divino” degno di entrare a far parte del canone) oppure, in qualche caso limitato e circoscritto, che sia qualcuno vicinissimo alla cerchia degli Apostoli, e che il suo testo abbia goduto di un precoce e generale riconoscimento da parte degli Apostoli e delle chiese che dagli apostoli erano guidate. Ma nel caso di un testo di cui poco o nulla si può dire circa il suo autore è difficile avvalorare questa possibilità, ci si deve per forza di cose limitare al fatto che è stata riconosciuta dalle chiese cristiane fin dal primo secolo (e questo è davvero documentato) e sul fatto che il messaggio testimonia dell’autenticità – cosa che però a me pare apra la strada a pericolosi soggettivismi. Mi sento di abbracciare la posizione di Calvino – che su questo tende a differenziarsi da Lutero – e che dice che nella sua provvidenza Dio non avrebbe consentito che finisse nel canone un testo che esprimesse concetti incompatibili con il messaggio del vangelo o che non fosse utile che i credenti avessero a disposizione per la loro formazione, e che se troviamo dei passi che ci sembrano ostici la soluzione non è ignorarli, ma se mai interrogare con maggior forza il Signore su cosa vuole dirci attraverso questi passi. Qualcuno, davanti ad Eb. 6, avrebbe buon gioco a citare il celebre versetto di Dt. 29:29 (“Le cose occulta appartengono al Signore, mentre le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli affinché le pratichiamo”) ma a questo mi sento di replicare che, intanto ogni versetto che si trova nella Scrittura appartiene al campo delle cose rivelate, e non delle cose “occulte”; ma poi replico anche con un altro versetto, Pr. 25:2, che dice che “è gloria di Dio nascondere le cose, ma è gloria dei principi quella di investigarle”.

Pochi versetti prima del testo che abbiamo letto, accade in questo scritto qualche cosa di simile, per alcuni versi, a quanto accade in un altro libro, quello degli Atti – in Eb. 5:11 lo scrittore dice: “Su questo argomento avremmo molte cose da dire, ma è difficile spiegarvele perché siete troppo immaturi” – Certamente tutti ricordano – anche perché lo si vede in maniera molto più netta e marcata – che negli Atti il “loro” diventa un “noi”; e anche qui, ciò che incomincia come un’esposizione impersonale, e che mantiene per molti tratti questo carattere, all’improvviso, con una soluzione di continuità, un cambio di tono, che a me pare che balzi abbastanza agli occhi, si concretizza in un noi – voi; i destinatari dell’altissima dottrina che fino a quel momento si era venuta delineando acquisiscono in qualche modo la forma e lo spessore di una comunità concreta, reale. E il “trattato” assume forma di lettera. Si tratta però di una forma i cui contorni restano indefiniti perché in realtà leggiamo il voi, ma non sappiamo chi si cela dietro questo voi; non sappiamo neppure se fosse una comunità locale specifica, un insieme di comunità, le chiese di una regione – un po’ come la lettera ai Galati – o addirittura tutti i cristiani (in questo caso la forma epistolare della seconda parte sarebbe una mera finzione letteraria). Il titolo, “Epistola agli Ebrei” dice poco in quanto prima di tutto è il frutto di una interpretazione dei primi copisti – tutti i riferimenti all’antico patto, alla legge, alla storia passata d’Israele ha fatto pensare a un testo pensato soprattutto per dei cristiani provenienti dal Giudaismo – ma una cosa del genere dice pochissimo dato che siamo nel primo secolo, un’epoca in cui praticamente tutte le chiese erano piene di credenti provenienti dal giudaismo, mentre non consta che vi fossero comunità costituite esclusivamente da credenti provenienti dal giudaismo. Personalmente tendo a pensare a dei destinatari precisi e circoscritti – ai quali magari l’autore sceglie di inviare non una semplice sua lettera, ma un testo già ben conosciuto e accettato quale parte della rivelazione di Dio, cui poi forse decide di apporre alcune sue considerazioni da applicare al contesto per cui sta scrivendo, cosa che renderebbe ragione della cesura in fondo al capitolo 5 – anche se ovviamente questa è solo una mia congettura. Il punto, comunque, è che dopo aver presentato una lunga trattazione il cui tema è la centralità di Cristo, e che smonta completamente qualsiasi pretesa di una salvezza che possa sminuire il ruolo di Cristo, fosse pure per affermare un qualche ruolo ancora plausibile per la Legge, o per il popolo dell’Antico Patto – ecco che la prima cosa che fa, l’autore, è quella di presentare questo strano monito del capitolo 6. Perché lo fa? Vorrebbe forse sottintendere che la grazia di Dio in Cristo ha una portata limitata, e che esiste un punto di non ritorno, superato il quale non è più applicabile? E’ davvero un’esortazione ai cristiani a badare di non cadere così in basso che neppure la croce di Cristo sarà più in grado di operare alcuna redenzione?

Non posso dire con assoluta certezza – anche se la trovo un’ipotesi persuasiva – che Eb. 1:1 – 5:10 sia un testo dottrinale già in circolazione cui poi qualcuno – un apostolo o qualcuno che ha ricevuto un incarico in tal senso da un a postolo – ha sentito di dover fornire una più compiuta spiegazione nella seconda parte del testo, o se, semplicemente, si tratta dello stesso autore che ha dedicato i primi 5 capitoli a riassumere il centro del messaggio Cristiano per poi applicarlo al contesto specifico di credenti cui si sta rivolgendo. Ma il primo punto che vorrei sottolineare è proprio questo: non comprendiamo nulla di questo scritto, e forse dell’intero Nuovo Testamento, se prescindiamo dal fatto che il culmine e il centro del suo messaggio non è la salvezza, ma è l’autore della salvezza, vale a dire Cristo. Se Paolo sembra parlare troppo di grazia, e Giacomo sembra parlare troppo di opere, la lettera agli Ebrei ci ricorda che non parleremo mai troppo di Cristo, e che in Lui ogni cosa trova il suo senso e la sua giusta collocazione. “come scamperemo se trascuriamo una così grande salvezza?” domanda retoricamente l’autore della lettera in 2:3, ma questa salvezza è grande, non perché sia grande colui che la riceve, e neppure perché sia grande la sua realizzazione concreta (su cui ben poco ci viene detto), ma piuttosto, perché è grande il suo autore, Cristo, superiore agli angeli, superiore alla legge, superiore al creato, superiore a Mosé., sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek.

Ma qui appunto l’autore si ferma e dice, sostanzialmente, “Sì, Melchisedek… ma voi che cosa potete capirne? Dovrei dirvi un sacco di cose e invece mi tocca parlarvi di nuovo delle cose che dovreste sapere da tempo, in cui dovreste voi stessi insegnare agli altri”. E, dicendo questo, ci pone sostanzialmente davanti un rischio per la chiesa di ogni tempo. Un rischio in cui la chiesa di ogni tempo è incorsa tante volte, anche – a mio avviso – perché si è troppo lasciata spaventare da versetti come questi.

Ricordo che, nei primi anni della mia conversione, scoprii – con una certa sorpresa – che quella delle conversioni multiple era (e forse è ancora) un’esperienza abbastanza diffusa, specialmente fra i figli di famiglie già evangeliche. Capita a volte che si abbia un’esperienza di “conversione” in età abbastanza precoce, a volte a seguito di pressioni in famiglia o presso campi biblici (ovviamente un ambiente particolare), e si accetti il Signore – o comunque ci si renda conto di averlo accettato - e dunque si chieda il battesimo; poi si ascoltano un paio di predicatori che asseriscono con grande sicurezza che il vero credente non pecca e che il credente che cade nel peccato probabilmente non è un vero credente, e il ragazzo entra in crisi e, per maggior sicurezza, si “converte” di nuovo. E questo spesso non accade una volta sola – perché la realtà del peccato purtroppo ci accompagna costantemente, ma questo sarebbe il tema di un’altra predicazione. Finisce che allora ci si continua ad interrogare sull’autenticità della propria conversione e si può anche arrivare a concludere che l’esperienza fatta non era autentica, e che è bene ripeterla. E’ possibile che già nel 1° secolo, forse, in ambienti dove si sottolineava tanto l’importanza della consacrazione e di un cammino di santificazione, questa soluzione potesse essere operativa già in epoca così antica. La soluzione prospettata dall’autore dell’epistola – lasciatemela chiamare così, non foss’altro per semplicità – agli Ebrei, è abbastanza chiara, e non passa – come ci aspetteremmo – per una riaffermazione della salvezza per fede, né per una sottolineatura dell’importanza delle opere. Passa piuttosto per due punti, e poi per una sfida.

Il primo punto: il solo fondamento della nostra Salvezza, è il Salvatore: Cristo. E’ una grande salvezza, che nessuno dovrebbe mai pensare di poter trascurare o ignorare. Cristo è il centro e l’autore della Rivelazione (Eb. 1:1-2). Non potrebbe esservi alcun contatto, alcuna comunicazione fra l’uomo e Dio, se Dio non avesse aperto un canale di comunicazione: e questo canale è il Figlio, Cristo. (2) Egli è l’autore e il centro della Creazione (1:3), ed è superiore a tutte le creature, anche alle più alte, agli angeli: lo è sia in quanto uomo perfetto, sia in quanto Dio – tant’è vero che gli angeli stessi lo devono adorare; (4) la sua stessa natura divina lo rende anche superiore a Mosè, sommo legislatore e rivelatore della prima legge e del primo patto (5) è autore di un riposo eterno per coloro che lo hanno ricevuto (6) adempie le funzioni di perfetto sommo sacerdote , ovvero è Lui che offrendo se stesso in sacrificio per i peccati apre a tutti noi la strada alla salvezza.

Il secondo punto è di cercare di conoscere su Cristo, di assimilare di Cristo, tutto quanto può essere conosciuto e assimilato. Non ci viene chiesto di tornare ad ogni caduta o ad ogni momento di incertezza al momento della conversione, di rimettere in discussione che quell’esperienza sia stata o meno autentica. Anzi, secondo quanto io capisco, proprio questo è il rischio da cui Ebrei ci mette in guardia: non tornate sempre su queste cose elementari e che conoscete già fin troppo bene – ci dice.

Non sono poche le comunità e gli autori evangelici che brandiscono Ebrei 6 come una spada per dimostrare che il credente che non vive un cammino di consacrazione rischia di perdere la salvezza ricevuta in dono, e tuttavia mi pare che leggere Ebrei 6 in questo modo sia fuorviante e perda di vista il punto che induce l’autore a scrivere queste parole. La sua esortazione di partenza non è “comportatevi bene”, ma “non ritornate sempre sugli insegnamenti elementari sulla fede e sulla salvezza” – e la “perdita della salvezza” di cui si parla qui (se è davvero di questo che si parla), è certo una perdita molto diversa e molto più tragica di quella predicata da queste comunità e questi autori, dato che si parla di una salvezza perduta per sempre, irrimediabilmente. Anche se può essere difficile per un predicatore, uno scrittore, una chiesa, dover rinunciare allo spauracchio dell’inferno – che può essere comodissimo – per convincere i fedeli a comportarsi da bravi cristiani timorati da Dio, consentitemi però di dire che se Dio avesse voluto che la paura dell’inferno fosse la chiave e la base del nostro agire etico, avrebbe dato probabilmente un vangelo diverso da quello che ci ha dato. Personalmente ascolto con un certo disagio predicatori – o leggo libri – il cui messaggio è: “Attenti a non esservi illusi”. Posto che fra di noi ci fosse davvero qualcuno che si è illuso di essere un credente, e però non lo è, ben venga se qualche suo peccato anche grave gli fa comprendere questo e lo porta a ravvedersi e a convertirsi davvero, che senso ha ammonire i credenti a stare attenti a non essere illusi? Comportatevi bene così non avrete motivo di mettervi in discussione – e andrete all’inferno in maniera più indolore? Perché è naturale che non sono le nostre cattive azioni a fare di noi degli illusi, ma è il fatto che ci siamo illusi che ci indurrebbe a compiere delle cattive azioni… Tuttavia sento anche di dover affermare con grande serenità ma anche con grande forza che né Dio, né Cristo, né la Scrittura illudono o deludono mai. Non posso escludere che qualcuno davvero sia un “illuso” ma credo anche che sono eccezioni – che andrebbero viste una per una, caso per caso. Ovviamente, è diverso il discorso dei “bugiardi” – per esempio, molti che oggi brandiscono la croce come una spada per affermare “Qui comandiamo noi”, temo che nella maggior parte dei casi non sono né credenti né illusi, ma che siano semplicemente dei bugiardi, che per convenienze varie trovano opportuno indossare una veste Cristiana. Ma torniamo ora al nostro testo.

L’esortazione è di lasciare l’insegnamento elementare (iniziale; le prime cose che vengono insegnate al neofita) intorno a Cristo e di tendere a quello superiore (a quello che lo completa). Il contesto della lettera – oltre che la grammatica – ci fa capire che il contrasto non è fra un insegnamento elementare su Cristo, e uno superiore che riguarda altre – diverse – realtà, bensì fra un insegnamento elementare, un annuncio iniziale (per dirlo più letteralmente) su Cristo – che è quello che ha a che fare con il ravvedimento, la fede, il battesimo, la resurrezione ecc. – e un insegnamento superiore che perfeziona e completa il precedente, ma che è sempre su Cristo, e che è quello che si incarna nel seguito della lettera dove viene ripreso il tema del sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek e del sacerdozio superiore di Cristo, che diventa la chiave per comprendere tutta la storia dell’Antico Testamento ma anche la storia presente – una storia fatta di persecuzioni e che deve culminare, di lì a poco, con l’assedio di Gerusalemme e la distruzione del tempio e la seconda diaspora degli Ebrei (uno dei pochi dati, fra l’altro, che ci offre qualche indicazione almeno sulla datazione e sull’ambientazione dell’epistola, è proprio il riferimento al tempio come a qualche cosa ancora operante ma prossimo ad essere superato – che ci fa pensare che ci troviamo a ridosso del 70 d. C., forse solo pochi anni prima).

Incastonato in tutto questo, l’enigmatico, terribile capitolo 6. Per il quale sono state proposte almeno 3 interpretazioni diverse. La prima è quella – assai in voga nel mondo delle chiese Pentecostali, significativamente più fra di loro che nel mondo cattolico – secondo cui l’insegnamento sarebbe: “Attenzione, perché la salvezza è per i non credenti; ma se dopo aver creduto, cadete non c’è più luogo ad alcuna salvezza: è come se crocifiggeste di nuovo Cristo e dunque può restare solo l’attesa di un giudizio”. Il secondo: il monito sarebbe per i falsi credenti, per gli illusi – e sarebbe, per l’appunto: “Attenti perché se voi frequentate la chiesa e conoscete perfettamente la verità che ha a che fare con la salvezza, ma nonostante questo non fate vostra questa verità, continuerete a peccare ma a causa del vostro rifiuto non ci sarà nessuna salvezza per voi, è come se crocifiggeste di nuovo Cristo e potete aspettarvi solo uno spaventoso giudizio. La terza è che questa sia solo un’ipotesi. Beh, certo parla così ma poi al versetto 9 si aggiunge: “Benché parliamo così siamo persuasi a vostro riguardo di cose migliori e attinenti alla salvezza” – e allora vedete che si parla di qualche cosa che non è reale…

In qualche modo faccio mia questa terza posizione, ma credo che vada un po’ modificata. Non siamo, a mio avviso, in presenza di un’ipotesi, in questo versetto, ma di una vera e propria sfida. L’Iddio che sta dietro la stesura di questo testo e del Nuovo Testamento in generale, è lo stesso che – tanto per fare un esempio – accetto di battersi con Giacobbe quasi alla pari, e di uscire addirittura apparentemente sconfitto (anche se il testo dice che Giacobbe ha vinto, non che il suo avversario abbia perso).

Il capitolo 6 della lettera agli ebrei ci presenta uno di quegli scenari davanti ai quali la mente umana vacilla, e che però sono tipici dell’agire di Dio. Da una parte, sappiamo come finirà la storia. Sappiamo come finirà la battaglia. Sappiamo chi vincerà la sfida. Come può l’autore della lettera in oggetto, parlando a una pluralità di lettori – e a un’enorme pluralità: non è una chiesa specifica e forse non è neppure un gruppo di chiese. Forse sono tutti i cristiani di tutte le età. Anche se mi sono fatto l’idea che dietro questo testo ci siano anche dei destinatari concreti, che sono forse una chiesa, forse un gruppo di chiese, forse un gruppo di credenti – penso anche che se in questo caso lo Spirito ha ispirato l’autore a non indicare un destinatario, voleva con questo sottolineare un punto preciso: che quello che veniva scritto era rivolto a tutti i cristiani di tutte le età non soltanto nei principi generali, ma anche nei dettagli situazionali. Così in qualche modo sento come se scrivesse anche a noi, a me “Siamo persuasi di ben altre cose a vostro riguardo?” Se il destinatario è – come è – generico, non è costituito tutto di credenti che l’autore conoscesse intimamente e personalmente, come poteva scrivere a tutti loro, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, “Tuttavia, “Ma abbiamo fede (il verbo è proprio”peitho – indica spesso, nel Nuovo Testamento, un vero e proprio atto di fede), riguardo a voi , di cose migliori e attinenti a salvezza”? Gli autori e i predicatori che usano questi testi per parlare di una salvezza da mantenere e che si può perdere sarebbero a questo punto molto più seri e più coerenti, perché di solito fanno precedere o seguire le loro filippiche da un prudenziale “Non conosco la vostra situazione “ e le concludono con un ancor più prudente “Il Signore conosce i cuori”. Il versetto 9 ci pone invece, in maniera peraltro estremamente poco teologica e molto immediata, di fronte allo scenario di quella che in gergo un po’ tecnico si chiama “escatologia realizzata”. Quella sfida è già vinta, possiamo già essere “persuasi”, avere fede nel fatto che il credente è salvato, perché Cristo – e non lui (se fosse lui non potrebbe esservi altro che l’attesa terribile di un giudizio che non lascia scampo) - è l’autore della sua salvezza. Potremmo anche rileggere i vv. 4 – 6, e immaginiamo che queste parole – vere – Dio non le stia dicendo in prima persona a noi, ma a Satana, per penetrare meglio nel senso di questa sfida. Una sfida vinta, ma una sfida vera.

E tuttavia, quella sfida è in corso. E, in questo senso, Eb. 6 è più di un’ipotesi: quello che c’è scritto è vero. E – tecnicamente – è possibile. Coloro che cadono dopo avere gustato la gioia della salvezza, non possono più né ravvedersi, né convertirsi perché hanno crocifisso il Figlio di Dio. C’è l’escatologia realizzata, che mi porta a dire che nessun credente ricadrà sotto questo tipo di giudizio perché la sfida è stata già vinta da Dio. E c’è il richiamo forte a non essere solo uno spettatore passivo, di questa escatologia realizzata – ma, oggi, devo dire., a non essere solo uno spettatore passivo della realizzazione di quest’escatologia – perché il mio impegno, il mio cammino di santificazione e di consacrazione – che costituiscono doni della grazia di Dio non meno di quanto lo sia la salvezza - fa pienamente parte dei mezzi che Dio ha scelto di usare per realizzare quest’escatologia. Camminiamo, o lottiamo, conoscendo già l’esito della battaglia e la meta del cammino, ma questo non ci porta a fermarci, o a cambiare strada, o a smettere di combattere, ma semmai ci sprona a farlo con impegno ancora maggiore – ma su questo diremo ancora qualcosa fra pochissimo. Ma sarà invece il rimettere continuamente in dubbio – sulla base delle nostre opere – la veridicità della salvezza ricevuta in dono, il timore di esserci illusi, la paura di non avere usato la formula giusta nel momento che siamo andati al Signore (perché se avessimo usato la formula giusta la conversione sarebbe stata autentica e allora non ci sarebbe stato luogo a cadute) – a fermarci, a bloccarci, a impedirci di andare avanti nel nostro cammino.

E concludiamo allora parlando proprio del cammino, e chiedendoci: ma dunque, Eb. 6 – e in generale la lettera agli Ebrei – non ha proprio nulla da dire ai cristiani in rapporto al loro cammino di fede e di consacrazione a cui sono chiamati? Penso che in realtà invece dice alcune cose molto importanti, e – avviandomi verso la conclusione – ne voglio ricordare almeno due: La prima. Nel momento stesso in cui invita quanti una volta hanno accettato Cristo nella loro vita a non stare a porre di continuo sempre lo stesso fondamento, invita anche coloro che NON hanno ancora fatto questo passo, a farlo. Come scamperemo se trascuriamo una così grande salvezza? E’ una domanda che non può parlare soltanto al cuore dei credenti. Parla anche – soprattutto – al cuore di chi credente, nel senso del NT del termine, ancora non è. Cristo è il centro di tutto, è il tema centrale della lettera agli ebrei. E’ il centro anche del tuo cuore? Non si accontenta lui di stare ai margini, o anche accanto. Si può essere molto vicini a Gesù, conoscere tutto di lui, essere anche convinti dell’altezza morale del suo messaggio e della sua vita, ma fino a quando non gli spalanchiamo la porta del nostro cuore, Lui terrà sempre la stessa posizione espressa da quelle parole dell’Apocalisse: io sto alla porta e busso. Dov’è Cristo nella tua vita e nel tuo cuore? AL centro, o alla porta, a bussare in attesa che tu gli risponda?

Cristo al centro ha però un profondo significato anche per i cristiani. Cristo al centro è la vera ragione dell’agire etico o – se preferite – del cammino di santificazione e consacrazione del cristiano. Non è la paura di un castigo, ma questo non vuol dire che non ci siano ragioni per il credente per sforzarsi di conformare la sua vita ai modelli espressi nella scrittura. E’ un po’ come in una famiglia – vi pare che abbia più senso compiacere il proprio marito o la propria moglie perché avete paura che se no vi lascia e divorzia, o perché lo amate o la amate e volete in tutti i modi farglielo vedere? Ecco, Dio non vuole da noi dei cristiani che vivono nella costante paura che lui divorzi da noi, ma che proprio perché sanno che lui non divorzierà mai, non verrà mai meno alle sue promesse, cercano in tutti i modi di manifestare che lo amano.

Di Roberto Cappato (robocap1@alice.it)




mercoledì 19 settembre 2012


Vangelo disumano, vangelo sovrumano

Galati 1:12

Vi dichiaro, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è opera d'uomo, perché io stesso non l'ho ricevuto né l'ho imparato da un uomo, ma l'ho ricevuto attraverso la rivelazione di Cristo Gesù. (Epistola di Paolo ai Galati, capitolo 1, verso 12)

Queste poche parole di Paolo sono di una semplicità straordinaria e al contempo di una difficoltà enorme. Paolo deve affermare davanti ad un gruppo di persone a cui ha annunciato il vangelo alcuni anni prima, e che hanno poi incontrato altri predicatori che hanno modificato il senso di quel vangelo, che quello giusto è il vangelo da lui annunciato e non viceversa. Per poterlo fare deve rivendicare un certa autorità. E lo fa affermando all'inizio della lettera che lui è apostolo (cioè mandato da Dio) non per volere degli uomini ma per volere di Dio; ed ora affermando che il suo vangelo ha un'origine divina e non un'origine umana. I concetti sono semplici, ma valli a dimostrare... Come si fa a provare che si sta parlando da parte di Dio? Quali prove esterne ci sono, quali criteri di verifica per dire che sia veramente così? Paolo fornirà alcune risposte ben articolate lungo il corso di questa densa lettera, che fanno appello alla sua biografia, ed alla sua esperienza diretta di Dio. Prima di esaminarle vorrei però soffermarmi alle premesse e vedere in che misura il problema posto da Paolo sia pertinente in ogni tempo. E lo vorrei fare ponendo due domande.
In primo luogo: Esiste un vangelo che è opera d'uomo? Ed in secondo luogo: con che diritto Paolo dice che il suo vangelo viene da Dio?

1. Vangelo d'uomo o vangelo di Dio?
Paolo sta dicendo ai Galati che il suo vangelo non è opera d'uomo. Ma visto che precedentemente ha affermato che non ci sono mille vangeli, ma uno solo, sta più semplicemente dicendo che il vangelo non è un discorso umano, non è una filosofia, non è una nuova dottrina che si affaccia nel panorama filosofico del tempo e che è migliore delle altre. Sta dicendo che il vangelo viene da Dio, e che chi riceve veramente questo vangelo, lo riceve da Dio. E' verissimo che possiamo dubitare di ogni persona che rivendica di avere un messaggio da parte di Dio. Ma è altrettanto vero che il vangelo, inteso come buona notizia di Dio agli uomini, non può che avere un'origine divina, altrimenti non è più tale.
In altre parole il vangelo che Paolo ha presentato ha una componente spirituale che trascende le categorie umane secondo cui gli uomini ragionano comunemente, e riguarda una vita diversa, trascendente, fatta di dialogo con Dio, attraverso la persona di Gesù Cristo. Può sembrare scontato, ma è importante fare questa differenza altrimenti il vangelo rischia di diventare una semplice buona filosofia, un insieme di sani principi fatti di rispetto ed amore per il prossimo, una forma di umanitarismo colorata di giudeocristianità. E non può né deve essere questo. Il vangelo è un incontro diretto con Dio, un rovesciamento delle categorie umane naturali, una scoperta di una vita nuova interamente rinnovata e guidata dallo Spirito di Dio. Se ci avviciniamo al vangelo semplicemente perché ci pare una bella filosofia di vita, perché ci attirano i suoi valori o le persone che lo praticano, stiamo mancando il centro del vangelo. Il centro è la possibilità di entrare in contatto diretto con Dio, attraverso un perdono che solo Dio può dispensare. Ecco perché dico che è "disumano"... E' disumano, o ancora meglio, sovrumano, perché permette qualcosa che nessun uomo può permettere.
Paradossalmente Paolo dicendo che il suo vangelo viene da Dio, rinuncia a qualsiasi pretesa diimpresa sulle persone, a qualsiasi forma di dominazione politica e psicologica dei suoi fratelli in Galazia, e anzi, li mette in guardia proprio perché si rende conto che altri stanno cercando di manipolarli con ragionamenti puramente umani che riportano la vita ad un'umanità piatta.
Ieri mi trovavo in un enorme centro commerciale a Milano e dopo questo ho visitato Ikea. Mi colpiva la potenza della persuasione pubblicitaria e lo sbandieramento forzato della convenienza comunque, al punto che a non comprare ci si sente stupidi, si pensa di aver perso un'occasione. La logica dei supermercati ci porta un vangelo veramente umano, quello della parabola consumistica per cui staremo meglio se compreremo cose che ci fanno star bene. Guai invece ad un vangelo che volesse agire sugli uomini con la manipolazione e non con la pura predicazione che richiede un'adesione razionale e spirituale.
Paolo, infatti, vuole far tornare l'uomo al progetto iniziale che Dio aveva concepito per lui, quello di una pienezza fisica e spirituale fatta di intesa con Dio, che l'uomo ha perduto peccando, cioè rendendosi indipendente, autonomo da Dio. Ritornare a questo progetto significa disumanizzarsi prima, per riumanizzarsi e diventare quello per cui Dio ci ha creati: essere umani, quindi di "humus", di terra, in comunione di Spirito con Dio. Il vangelo non è "umano"! Non è un qualcosa che viene dalla terra e che porta alla terra. Viene da Dio e porta verso Dio. E chi lo vuole annunciare deve fare sue le parole dell'apostolo e fare un grande sforzo: lo sforzo di non aggiungere niente a questo vangelo, di non "riumanizzarlo" secondo la sua cultura, la sua civiltà, la sua umanità. Il vangelo deve veramente portarci in alto, al di sopra della nostra comune condizione umana, per farci vivere bene nella condizione umana in cui ci troviamo. Rigenerando il nostro spirito e ristabilendo la nostra profonda amicizia con Dio. La risposta alla domanda è quindi chiara: no! Non esiste un vangelo che venga dall'uomo perché il vangelo è per definizione disumano, o meglio sovrumano!

2. Con che diritto Paolo dice che il suo vangelo viene da Dio?
Il vangelo di Paolo ha una particolarità. Se è vero che il vangelo è qualcosa di divino, e quindi ogni conversione è soprannaturale, dobbiamo ammettere che il modo in cui Paolo ha incontrato il vangelo ha qualche particolarità in più. Molti ascoltano da altri la buona notizia del vangelo. Poi decidono se accettarla o meno, e se aprono il cuore allo Spirito, incontrano Dio. Quindi parola divina, ma mediata da uomini che la annunciano, esattamente come Paolo la ha annunciata ai galati. Per Paolo le cose sono andate diversamente, perché mentre si dava da fare per uccidere dei cristiani, Dio stesso lo ha accecato costringendolo a riconoscerlo come Signore. Ci riporta dunque un'esperienza che è interamente fatta di spiritualità, di soprannaturale, sulla quale il nostro controllo razionale ha ben poche possibilità di intervenire. In altre parole, se qualcuno ci chiedesse chi ce lo garantisce che era veramente Cristo che parlava con Paolo, non potremmo rispondere che ci sono delle prove schiaccianti e incontrovertibili che dimostrano che è Dio che gli ha parlato... Ma del resto è ovvio, ed è così come per tutto quello che è spirituale. Non ci sono mia prove razionalmente vincolanti, ma fatti che viviamo nello spirito.
Tuttavia, alcuni elementi della conversione di Paolo, mi sembrano da notare. Non dimostrano razionalmente la divinità dell'esperienza da lui vissuta, ma devono però far riflettere.
  • In primo luogo Paolo passa dalla violenza alla pace, dalla persecuzione alla libertà, dall'integralismo fondamentalista all'annuncio deciso ma amorevole e pacifico. Non è qualcosa di comune a molti uomini. So bene che ci sono mille obiezioni, che si può parlare di sensi di colpa che portano a cambiare, che si può leggere tutto in modo puramente umano, ma una simile conversione, un simile cambiamento deve far riflettere. Come devono fare riflettere le vite che ancora oggi vediamo cambiare davanti ai nostri occhi. Ancora oggi, in nome di questo stesso vangelo ci sono delinquenti che abbandonano la delinquenza, drogati che abbandonano la droga, ubriachi che smettono di bere, o più semplicemente persone tristi e disperate, che trovano la gioia, o persone tranquille che trovano nel vangelo una dimensione di vita più profonda e più ricca. Ognuno deve riflettere sull'origine di questi cambiamenti...
  • Dall'etnocentrico all'universale. Quello di Paolo è vangelo, ed è vangelo divino perché mira all'universalità, è valido per tutti gli esseri umani, e non è più racchiuso tra i limiti etnici di una nazione. Paolo si pone proprio sul punto di passaggio che porta dal particolare degli ebrei, all'umanità intera. Questo realizza le profezie che troviamo in numerosi passi dei profeti del popolo di Israele, come Isaia e tanti altri che già anni prima parlavano di annuncio alle nazioni ed il fatto che un uomo porti il messaggio ricco e potente contenuto nelle Scritture degli ebrei alla totalità dell'umanità con un'apertura universalista, fa ugualmente riflettere. Non prova certo l'origine divina di quel vangelo, ma se l'idea che ci facciamo di DIo è quella per cui è un essere che ama tutti gli uomini, senza distinzioni di razza, cultura e nazione, ecco che il vangelo di Paolo va direttamente in questo senso, e ben prima che l'uguaglianza tra uomini venisse teorizzata dai filosofi.
  • Dal singolo individuo alla collegialità degli apostoli: c'è un ultimo punto che fa ugualmente riflettere. La conformità dell'esperienza di fede. Questo vangelo di Paolo non si presenta in opposizione a quello degli altri apostoli, non è la parola di un uomo contro quella di altri. Certo che ci saranno tensioni nell'equipe apostolica e discussioni che troveranno delle soluzioni. Ma quest'intuizione universalista di Paolo è condivisa. E la fede comune unisce questi uomini in maniera uniforme. Questo forse dà qualche garanzia rispetto all'idea che la fede sia semplicemente fatta di idee umane che un uomo ha saputo ben architettare. Si tratta di rivelazioni dirette a più uomini che trovano una grande coerenza di fondo ed una grande armonia tra di loro, malgrado la differenza di accenti e di tono. Anche questo non prova niente: ma c'è una sfida per ognuno di noi? Vogliamo cercare di incontrare anche noi la voce di Dio in questo vangelo predicato da Paolo, vivendo un'esperienza simile a quella degli altri apostoli?

Lasciamo che lo Spirito stesso attesti in noi l'origine divina delle parole che leggiamo. E lasciamo che questo stesso Spirito, ci disumanizzi, ma per renderci più umani. AMEN


mercoledì 12 settembre 2012


Uno, dieci, cento vangeli

Galati 1:1-10

1 Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, 2 e tutti i fratelli che sono con me, alle Chiese della Galazia.3 Grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, 4 che ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, 5
 al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
6 Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. 7 In realtà, però, non ce n'è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. 8 Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! 9 L'abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! 10 Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo! (Epistola di Paolo ai Galati 1:1-10)

Sentiamo spesso dire che tutte le strade portano a Dio, che non ne esiste un'unica o una privilegiata e che quel che conta è comportarsi bene. Si tratta di slogan che spesso accettiamo senza troppo riflettere, probabilmente perché gli eccessi e l'aggressività di chi ha preteso si detenere un'unica verità ci hanno scottati e resi ostili a qualunque proposta forte in materia di fede. I presunti detentori della verità ci paiono arroganti e presuntuosi, ed in effetti chi sostituisce se stesso al vangelo proponendosi come migliore degli altri finisce per allontanare l'umanità da quel Dio che vorrebbe presentare.
Tuttavia, un'epistola come quella di Paolo alle chiese di Galazia, che cominciamo oggi a studiare e che continueremo a studiare per diverse domeniche, ci farà forse rivedere criticamente gli slogan che moltiplicano le verità relativizzandole, facendoci cogliere il messaggio profondo di un vangelo che si propone come verità. Come verità sull'uomo, sulla vita, su Dio. SI badi bene, non come verità che farebbe certi uomini migliori di altri o unici detentori di verità; ma come verità che permette la conoscenza di quel Dio che si è rivelato in Gesù Cristo duemila anni fa, e che in modo universale invita ogni uomo ad incontrarlo ed a conoscerlo. Questo è lo scopo delle Scritture e questo il motivo per cui le studiamo.

L'epistola di Paolo alle chiese della Galazia è, ad opinione comune, una delle più importanti dell'apostolo, ed una di quelle che viene universalmente riconosciuta come autentica. La lettura dei primi dieci versetti ci dice qualcosa di molto forte sul senso del vangelo che cercherò di riassumere in tre punti.

  1. Un riassunto del vangelo.
Quando si parla di vangelo, di Cristianesimo, di Gesù è sempre difficile riuscire a riunire tutto in un'unica frase o parola. Non si sa da dove partire, si fa riferimento all'esperienza personale, ci sembra che la quantità di informazioni da dare parlando del vangelo siano troppo numerose. È utile quindi leggere le prime righe delle epistole di Paolo: in questa, dicendo che il suo apostolato viene da Dio e non dagli uomini, aggiunge un brevissimo riassunto del vangelo. Consideriamo questi pochi versetti:

Il Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, 5 al quale sia gloria nei secoli dei secoli.

Potrà sembrare riduttivo, ma il vangelo, in pochissime parole è soltanto questo: Gesù Cristo, che è risuscitato dai morti è morto dando se stesso per noi. Perché? Perché i nostri peccati ci separavano da Dio. I nostri peccati, il cui primo è quello di ritenerci autonomi ed indipendenti dal creatore della vita, ci allontanano da Lui. Questo allontanamento ha un prezzo che Gesù Cristo ha pagato sulla croce, dando se stesso al posto nostro. Questo suo atto ci strappa da un mondo perverso: che significa? Significa che se viviamo senza tenere conto di questo sacrificio viviamo male, o solo apparentemente bene, ma in realtà male. Perché non cogliamo la dimensione eterna della vita e rimaniamo legati a questo mondo presente. Che è finito e che funziona male.
Certo che, detto ciò, potremmo aggiungere moltissime altre cose: che dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere, che dobbiamo amare profondamente i nostri simili che sono amati quanto noi dal Padre, e per cui Gesù è ugualmente morto. Ma il centro è quello messo in luce da quelle poche parole. Tutto parte da un'azione di Dio nei nostri confronti che ha visto Cristo morire per noi. Questa è la volontà del padre. E per questo noi diamo gloria a Dio. Il vangelo si completa quando dalla lontananza da Dio cominciamo a lodarlo, a sentire il bisogno di dargli valore ed importanza. Ecco in pochissime parole il vangelo.

  1. Uno o tanti vangeli?
Veniamo ora al problema centrale dell'epistola. Se questo che abbiamo brevemente illustrato è il vangelo, Paolo si stupisce che i Galati siano velocemente passati ad un altro vangelo. Velocissimo riassunto storico: la Galazia è una provincia dell'impero romano, che si trova nella zona in cui oggi troviamo la capitale della Turchia, Ankara, e in cui Paolo aveva fondato durante il suo secondo viaggio (Atti 16,6) che ha poi rivisitato durante il terzo viaggio (At 18,23). Probabilmente durante la sua assenza alcuni che lui definisce “turbatori”, “sovvertitori” cercano di cambiare questo vangelo di Cristo. Sembra che si tratti di cristiani che cercano di ripristinare alcune leggi e tradizioni giudaiche, in particolare la circoncisione o il rispetto di alcune feste. Vedremo più avanti più nel dettaglio in cosa consista questa eresia, ma per ora ci limitiamo a insistere su un semplice fatto: non ci sono tanti vangeli; o come dice Paolo: “Non c'è un altro vangelo” oltre a quello di Gesù Cristo. Il vangelo è uno ed è il solito, quello della grazia di Dio verso gli uomini. Aggiungere a questo semplice vangelo altre esigenze, altri orpelli, altre invenzioni significa rovinarlo. Ci hanno provato questi intrusi nelle chiese di Galazia 2000 anni fa, e hanno continuato e continuano a rovinarlo in tanti nel corso della storia ed oggi. Anzi forse dovremmo renderci conto che tutti, siamo potenzialmente dei guastatori, dei disturbatori del vangelo, nel momento in cui “aggiungiamo” elementi estranei alla sua semplicità. Nel corso della storia le chiese hanno inventato numerose tradizioni, hanno strutturato la loro forma in mille modi diversi, hanno elaborato dottrine molteplici. La Riforma protestante ha cercato di dare una forte spinta verso il ritorno a questa semplicità iniziale, ma spesso le stesse chiese nate dalla riforma hanno aggiunto molte dottrine a questo nucleo centrale. Molte di queste sono sicuramente importantissime e completano il messaggio del vangelo, arricchendolo in modo costruttivo. Ma non ci può essere una dottrina, una teologia, una chiesa che aggiunge o che si mette in contrasto con questa semplice verità. Non è tutto relativo, e non è tutto uguale. C'è un vangelo vero ed un vangelo falso e come credenti rischiamo di incorrere nell'anatema di Paolo – cioè nella maledizione – se vogliamo cambiare, sovvertire quel vangelo che Cristo ha presentato. Molti cattolici hanno sostituito questo vangelo con il concorso delle opere umane, con una presunta bontà naturale dell'uomo o con un apparato sacramentale capace di fare qualcosa da solo; molti evangelici hanno finito per mischiare all'unicità della salvezza la frequenza alle riunioni in chiesa o il numero di versetti memorizzati a settimana; altri protestanti hanno finito per pensare che questa grazia sia talmente libera e tranquilla che poco importa poi se salva o meno dal “presente mondo perverso”, finendo per vivere come se nessuno li avesse strappati da quel mondo di cui parla Paolo. Ma l'inizio meraviglioso di questa lettera ci mette in guardia: il vangelo è uno, ed è semplice. Non allontaniamocene rovinandolo e maledicendoci!

  1. L'autorità
Mi colpisce molto una delle affermazioni di Paolo di questi pochi versetti: il vangelo non deve essere diverso da come è stato annunciato dagli apostoli. La comunità apostolica, avendo vissuto da vicino con Gesù, è garante di quel messaggio, che ha cercato di fissare nelle Scritture che ci sono pervenute. A parte questa parola apostolica, che crediamo guidata ed inspirata dallo Spirito Santo, non ci sono altre “agenzie” autorevoli in grado di annunciare il vangelo. Se anche un angelo, quindi una fonte spirituale, volesse cambiarlo non avrebbe questo diritto. È un messaggio chiaro per i visionari e per quelli che pensano di avere un contatto diretto con il cielo superiore a quello degli apostoli stessi. Addirittura Paolo previene un suo potenziale rincretinimento senile cambiamento di qualche tipo: se anche “noi”, cioè quegli stessi apostoli che potrebbero nel tempo essere maturati ed aver fatto diverse esperienze, volessero cambiare il vangelo annunciato inizialmente, siano maledetti! Perché non è un messaggio di uomini in cerca del favore degli uomini, ma un messaggio di Dio che cerca di annunciare Dio senza compromessi. Il vangelo dei sovvertitori delle chiese di Galazia probabilmente cercava di compiacere alcuni giudeo-cristiani che aveano a cuore le tradizioni giudaiche. Oggi molte chiese cercano di compiacere qualche categoria di persone. Attenzione, non di andare incontro a queste persone, ma di compiacere, cosa molto diversa. Il vangelo ovviamente si adatta, si modella in base al destinatario, ma il suo nucleo non cambia. Ma andare incontro diventa compromesso quando il vangelo quando cerca di compiacere: quando toglie ogni suo elemento soprannaturale per compiacere gli intellettuali; quando elimina ogni riferimento alla povertà per compiacere ai ricchi; quando parla solo di povertà per piacere ai marxisti o ai poveri; quando parla solo di valori per piacere ai benpensanti e solo di violenza verbale per compiacere i rivoluzionari. Potremmo aggiungerne tante, ma il vangelo ritoccato non è più tale. E allora predicandolo chiediamoci sempre, se stiamo trasmettendo quel messaggio di grazia, se lo stiamo predicando come unico e necessario e soprattutto se stiamo cercando di piacere agli uomini o a Dio.


lunedì 3 settembre 2012


Quanto vale un seme?

Vangelo di Marco capitolo 4:1-20

1 Di nuovo si mise a insegnare lungo il mare. E si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli salì su una barca e là restò seduto, stando in mare, mentre la folla era a terra lungo la riva. 2 Insegnava loro molte cose in parabole e diceva loro nel suo insegnamento: 3 «Ascoltate. Ecco, uscì il seminatore a seminare. 4 Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e vennero gli uccelli e la divorarono.5 Un'altra cadde fra i sassi, dove non c'era molta terra, e subito spuntò perché non c'era un terreno profondo; 6 ma quando si levò il sole, restò bruciata e, non avendo radice, si seccò. 7 Un'altra cadde tra le spine; le spine crebbero, la soffocarono e non diede frutto. 8 E un'altra cadde sulla terra buona, diede frutto che venne su e crebbe, e rese ora il trenta, ora il sessanta e ora il cento per uno». 9 E diceva: «Chi ha orecchi per intendere intenda!».
10 Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli disse loro: 11 «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole,12 perché:
guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano,
perché non si convertano e venga loro perdonato».
13 Continuò dicendo loro: «Se non comprendete questa parabola, come potrete capire tutte le altre parabole? 14 Il seminatore semina la parola. 15 Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la parola; ma quando l'ascoltano, subito viene satana, e porta via la parola seminata in loro.16 Similmente quelli che ricevono il seme sulle pietre sono coloro che, quando ascoltano la parola, subito l'accolgono con gioia, 17 ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si abbattono.18 Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine: sono coloro che hanno ascoltato la parola, 19 ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la parola e questa rimane senza frutto. 20 Quelli poi che ricevono il seme su un terreno buono, sono coloro che ascoltano la parola, l'accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno».


Dopo un bel periodo di semina, come quello che abbiamo trascorso insieme ai nostri amici francesi, credo sia bello riprendere la parabola del seminatore che, appunto, parla di seminare. Per una settimana, abbiamo infatti cercato di seminare in modo più “intensivo” di quanto non facciamo di solito, distribuendo volantini sulla nostra chiesa, e annunciando la parola con diverse attività di evangelizzazione. Pensando a tanti semi lanciati, sotto forma di fogli, parole ed incontri, possiamo trovare un senso a quanto fatto meditando le parole del vangelo di Marco.
Perché Gesù tra le tante metafore che avrebbe potuto scegliere prende proprio quella del seme ? -  che non è poi la sola a cui equipara il vangelo. Tento una risposta: il seme, in primo luogo, ci colpisce per la sua piccolezza e per la fragilità del suo destino. Un seme lanciato da un seminatore è esposto al vento, agli uccelli, all’impossibilità di vedere sotto i terreni e quindi può cadere nel buono, ma anche nel cattivo terreno. Mi colpisce proprio il fatto che non ci sono grossissime garanzie che un seme lanciato produca frutto. Potrebbe esserci siccità, eccesso di piogge, potrebbe essere mangiato appunto dagli uccelli, e niente ci garantisce che faccia crescere una pianta. Il vangelo, paradossalmente, è anche così; o meglio, l’evangelizzazione è più simile ad una semina tradizionale, che ad un’operazione di agricoltura intensiva. In modo delicato, come un seme, si insinua tra le zolle di un campo e aspetta di essere accolto bene. C’è una gran fragilità nel suo affermarsi. Mi viene da pensare a quanto poco siano invasivi i semi, alla loro discrezione. L’evangelizzazione non è quindi una rumorosa ed impositiva campagna pubblicitaria che impone un messaggio. Dio non si impone agli uomini con violenza, e non si manifesta con aggressività, ma si propone come un seme. Tuttavia, questo seme impone ai terreni di rivedere completamente la loro consistenza, proprio come le parabole non impongono niente, ma per essere capite richiedono uno sforzo interpretativo. “Chi ha orecchi per intendere”, dice Gesù! Perché il seme possa portare frutto non c’è bisogno di pesticidi che sconfiggano le piante del campo o di irrigazione intensiva che faccia crescere dove è impossibile: c’è bisogno che i terreni siano pronti ad accogliere, quindi di una trasformazione dei terreni. Ecco perché, nella spiegazione, Gesù dice che parla in parabole: per costringere le persone a riflettere sulla loro condizione. Quindi fragilità, delicatezza, soffio: ma non perché il vangelo non sia potente! Semplicemente perché questo modo di porsi del vangelo, costringe a cercare, a pensare, a scoprire. E chi non vuole aprire il proprio cuore al seme della parola, rimane un terreno sterile che non porta frutto.
Uccelli. Possiamo riprendere le immagini di questa parabola e vedere quanto siano attuali ed utili a spiegare la precarietà della semina: il seme sulla strada viene portato via dagli uccelli, che rappresentano satana che porta via la parola. La società in cui viviamo è caratterizzata da una quantità infinita di informazioni che circolano e di canali che le fanno circolare: i media che abbiamo oggi permettono di seminare idee buone e cattive in modo più ampio e veloce di quanto non accadesse al tempo di Gesù. Come credenti abbiamo la gran responsabilità di seminare tanto perché i semi vengono facilmente spazzati via da altre idee o da altri canali. Infiliamo dépliant di evangelizzazione accanto al catalogo dell’IKEA, alla pubblicità di un ristorante, a mille altre proposte che concorrono. Dobbiamo esserne consapevoli, e non stancarci di seminare. Ma dobbiamo anche pensare a noi stessi: riceviamo la parola adeguatamente o lasciamo che venga portata via dal primo uccello che passa? La parola che leggiamo da soli, quella che ascoltiamo la domenica, quella che leggiamo in un libro, che cosa facciamo perché attecchisca? Se ci limitiamo ad ascoltarla superficialmente, senza tornarci sopra durante la settimana, senza parlarne, senza riprenderla, probabilmente finirà per essere mangiata dagli uccelli...
Rocce: seminiamo in un terreno che spesso ha terra solo in superficie e sotto è fatto di rocce. È una bella immagine per descrivere la superficialità umana. Ci si entusiasma facilmente, ma solo del contorno del messaggio, non della sua essenza. Capita spesso di vedere nelle chiese persone che si avvicinano con entusiasmo, che magari fanno professioni di fede  e battesimi, che dichiarano la loro fede con forza, e che poi si fermano alla prima prova. La scarsità di terreno, la superficialità è una pecca tipica della nostra società. Sentiamo talmente tante voci che non riusciamo ad approfondirne nessuna, quindi ci lanciamo con entusiasmo verso cose nuove, ma non le assimiliamo. Anche qui dunque cerchiamo di essere consapevoli che la semina prevede di queste false partenze... Ma lasciando chi abbandona le chiese e pensando a chi invece rimane:  quanto approfondiamo le parole che il Signore ci dà? Quanto lavoriamo perché si radichino profondamente dentro di noi per portare il frutto di una vita rinnovata?
Spine. L’attualità di quest’ultima immagine mi sconcerta. Preoccupazioni e bramosie del mondo, ricchezza, tendenze che in un mondo materialista e consumistico come il nostro vengono portate alla massima esaltazione. Mi spaventa sempre di più il problema del senso che riceviamo dai prodotti della nostra società: siamo incoraggiati a comprare e siamo in crisi perché non produciamo e non compriamo... Il capitalismo ci abitua ad essere consumatori in primo luogo. E confesso che l’acquisto di un bene mi procura gioia, mi fa sempre pensare che potrò stare meglio. Una macchina nuova più grande, un computer nuovo più rapido, una lavatrice nuova... Non possiamo uscire dal mondo in cui siamo e fare a meno dei beni di consumo, ma dobbiamo essere consapevoli del loro potere “soffocante”. Quando diventano fini a se stessi ci hanno soffocato, e hanno sottomesso la nostra vita al consumo. Dio non vuole dei consumatori, vuole persone che portino frutto, e che fioriscano nella gioia spirituale di conoscerlo. Vuole persone che sappiano usare i beni di questo mondo per la sua gloria ed il suo regno, non che li distraggano dal fine della vita. Consapevoli che molti semi verranno soffocati dalle spine del mondo consumistico in cui viviamo, stiamo attenti a tagliare i rovi intorno a noi!
La potenza del messaggio. Quanto detto potrebbe spaventarci o comunque farci stare sull’attenti, perché se il messaggio è così precario potremmo temere di perderlo, di non riceverlo, di seminare invano o ancora potremmo immaginare che la ricezione del messaggio sia del tutto arbitraria. Eppure la parabola ha un gran messaggio incoraggiante: nonostante la piccolezza e la fragilità il seme nasconde un’infinita potenza. Ed è impressionante pensare che piante enormi, come le sequoie o i baobab, ma anche dei semplici pomodori o delle zucche, vengano fuori da piccoli semini che hanno in sé una misteriosa forza che li fa crescere. Se l’aspetto della fragilità ci ha preoccupati, facendoci temere che le parole possano volare senza utilità, possiamo stare certi che ogni seme di vangelo depositato non è deposto invano. Nasconde in sé una forza che va avanti da sola, e che per quanto vada annaffiata è lasciata in mano alla natura. Durante questa settimana abbiamo lanciato molti semi, ed altri amici ci hanno aiutato a lanciarne. Questi semi hanno una loro forza intrinseca che non dipende da noi e dalla nostra volontà, e possiamo avere fede in Dio che cresceranno. Non sappiamo in quali terreni, ma certamente cresceranno perché il vangelo contiene una sua forza autonoma, quella dello spirito santo che fa crescere le parole seminate. Non vedremo crescere molti dei semi seminati, eppure cresceranno in un modo che noi non immaginiamo.
E possiamo anche pensare che se siamo stati un giorno buon terreno ed abbiamo accolto il seme della parola, questo seme continua ad andare avanti. La parabola parla del seme nella sua prima fase, ma già nello stesso capitolo una parabola successiva che non abbiamo letto parla della forza dell’albero che cresce da sé. Se abbiamo scelto di camminare con Dio, ci siamo convertiti ed abbiamo dato la nostra vita a lui, possiamo stare certi che questa vita continua.
Se la parabola poggia sulle due idee di fragilità e potenza del seme, credo che noi potremmo pensare di identificarci sia con il seminatore che con la terra che riceve: abbiamo ricevuto un seme lanciato da altri; sforziamoci di coltivare il nostro proprio terreno, dissodandolo, ripulendolo, tenendo lontani uccelli, spine e quant’altro ci impedisca di ricevere ogni giorno la parola di Dio. Ed identifichiamoci anche nel seminatore, perché come abbiamo ricevuto i semi vogliamo darne, seminando nelle vite di chi ci sta intorno e fiduciosi nella potenza del seme del vangelo: il vangelo è la parola di Dio che rivolge un invito agli uomini ad incontrarlo e a convertirsi per una vita di crescita spirituale, opposta ad una vita di aridità.