martedì 25 settembre 2012


LA SFIDA DI EBREI 6, 1-12

Nel programma di predicazioni che scandisce i tempi di questa comunità, ci si trova più o meno fra il primo e il secondo capitolo della Lettera ai Galati – uno dei capisaldi della dottrina paolina sulla salvezza che si acquisisce per sola fede e senza l’ausilio delle opere della legge. Per questa riflessione, però, la scelta è ricaduta su un testo che sembra praticamente azzerare tutto quanto Paolo scrive in questa e in altre sue lettere: Eb. 6:1 – 12, un testo che difficilmente è oggetto di predicazioni o di studi biblici. Ad una prima lettura sembra che l’autore di questa epistola – che soltanto una tradizione tardiva e alquanto incerta ha attribuito a Paolo – stia sottolineando con una forza tutto sommato abbastanza inedita, nel Nuovo Testamento, l’importanza fondamentale delle opere per la salvezza. E questo sembra contraddire non soltanto il messaggio della lettera ai Galati, né soltanto il messaggio di Paolo, ma un po’ tutto il messaggio dell’evangelo. E’ un testo davanti al quale ogni credente di impostazione riformata non può non fermarsi a riflettere. E penso che proprio per questa sua caratteristica è un testo che viene letto e studiato poco. Ma questa è una mancanza, che porta alla Chiesa non poche conseguenze negative – e queste conseguenze non hanno certo a che fare con il fatto che i credenti prestano meno attenzione al loro cammino di personale santificazione e consacrazione.

Procedendo con ordine, per comprendere un testo come questo, non si può evitare di dire due parole sulle sue caratteristiche più estrinseche, e sulle vicende che stanno dietro al fatto che noi possiamo leggere questo scritto nelle nostre Bibbie, dove è inserito a pieno titolo fra i libri del Nuovo Testamento. Una cosa che non è affatto così scontata. Lutero – colpito da passi come questo e altri – la pose in fondo, quasi in appendice alla sua traduzione in tedesco della Bibbia, accanto agli altri testi che reputava di dubbia canonicità, vale a dire le lettere di Giacomo e di Giuda e l’Apocalisse; ma i suoi dubbi non derivavano solo dal fatto che sembrava contraddire la dottrina da lui riscoperta, e a lui tanto cara, della giustificazione per fede, ma anche per ragioni che rendono oggettivamente problematica l’inserzione di questo testo nel canone. In effetti Ebrei è una lettera a suo modo enigmatica e misteriosa. In primo luogo, è del tutto da vedere se siamo davvero di fronte ad una “lettera”. Sicuramente si conclude come una lettera, e nel corpo della trattazione presenta molti aspetti tipici della letteratura epistolare, c’è un voi, a cui l’autore si rivolge. Ma l’inizio non è affatto quello di un’epistola, sembrerebbe piuttosto di essere di fronte ad una specie di sermone, o di piccolo trattato. Che però, appunto, un po’ misteriosamente poi si conclude come una lettera con dei saluti – che non si sa però chi è che manda, e a chi. Perché anche l’autore, la paternità di questo scritto, è oggetto di numerosi interrogativi. L’attribuzione a Paolo è tardiva e improbabile, sono stati proposti – fin dall’antichità – molti nomi, ma nessuno risulta del tutto convincente. E certamente è problematico di uno scritto canonico non conoscere l’autore dato che, uno dei criteri per riconoscere la canonicità di uno scritto neotestamentario è proprio che il suo autore sia un apostolo (cosa che rende il libro “per diritto divino” degno di entrare a far parte del canone) oppure, in qualche caso limitato e circoscritto, che sia qualcuno vicinissimo alla cerchia degli Apostoli, e che il suo testo abbia goduto di un precoce e generale riconoscimento da parte degli Apostoli e delle chiese che dagli apostoli erano guidate. Ma nel caso di un testo di cui poco o nulla si può dire circa il suo autore è difficile avvalorare questa possibilità, ci si deve per forza di cose limitare al fatto che è stata riconosciuta dalle chiese cristiane fin dal primo secolo (e questo è davvero documentato) e sul fatto che il messaggio testimonia dell’autenticità – cosa che però a me pare apra la strada a pericolosi soggettivismi. Mi sento di abbracciare la posizione di Calvino – che su questo tende a differenziarsi da Lutero – e che dice che nella sua provvidenza Dio non avrebbe consentito che finisse nel canone un testo che esprimesse concetti incompatibili con il messaggio del vangelo o che non fosse utile che i credenti avessero a disposizione per la loro formazione, e che se troviamo dei passi che ci sembrano ostici la soluzione non è ignorarli, ma se mai interrogare con maggior forza il Signore su cosa vuole dirci attraverso questi passi. Qualcuno, davanti ad Eb. 6, avrebbe buon gioco a citare il celebre versetto di Dt. 29:29 (“Le cose occulta appartengono al Signore, mentre le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli affinché le pratichiamo”) ma a questo mi sento di replicare che, intanto ogni versetto che si trova nella Scrittura appartiene al campo delle cose rivelate, e non delle cose “occulte”; ma poi replico anche con un altro versetto, Pr. 25:2, che dice che “è gloria di Dio nascondere le cose, ma è gloria dei principi quella di investigarle”.

Pochi versetti prima del testo che abbiamo letto, accade in questo scritto qualche cosa di simile, per alcuni versi, a quanto accade in un altro libro, quello degli Atti – in Eb. 5:11 lo scrittore dice: “Su questo argomento avremmo molte cose da dire, ma è difficile spiegarvele perché siete troppo immaturi” – Certamente tutti ricordano – anche perché lo si vede in maniera molto più netta e marcata – che negli Atti il “loro” diventa un “noi”; e anche qui, ciò che incomincia come un’esposizione impersonale, e che mantiene per molti tratti questo carattere, all’improvviso, con una soluzione di continuità, un cambio di tono, che a me pare che balzi abbastanza agli occhi, si concretizza in un noi – voi; i destinatari dell’altissima dottrina che fino a quel momento si era venuta delineando acquisiscono in qualche modo la forma e lo spessore di una comunità concreta, reale. E il “trattato” assume forma di lettera. Si tratta però di una forma i cui contorni restano indefiniti perché in realtà leggiamo il voi, ma non sappiamo chi si cela dietro questo voi; non sappiamo neppure se fosse una comunità locale specifica, un insieme di comunità, le chiese di una regione – un po’ come la lettera ai Galati – o addirittura tutti i cristiani (in questo caso la forma epistolare della seconda parte sarebbe una mera finzione letteraria). Il titolo, “Epistola agli Ebrei” dice poco in quanto prima di tutto è il frutto di una interpretazione dei primi copisti – tutti i riferimenti all’antico patto, alla legge, alla storia passata d’Israele ha fatto pensare a un testo pensato soprattutto per dei cristiani provenienti dal Giudaismo – ma una cosa del genere dice pochissimo dato che siamo nel primo secolo, un’epoca in cui praticamente tutte le chiese erano piene di credenti provenienti dal giudaismo, mentre non consta che vi fossero comunità costituite esclusivamente da credenti provenienti dal giudaismo. Personalmente tendo a pensare a dei destinatari precisi e circoscritti – ai quali magari l’autore sceglie di inviare non una semplice sua lettera, ma un testo già ben conosciuto e accettato quale parte della rivelazione di Dio, cui poi forse decide di apporre alcune sue considerazioni da applicare al contesto per cui sta scrivendo, cosa che renderebbe ragione della cesura in fondo al capitolo 5 – anche se ovviamente questa è solo una mia congettura. Il punto, comunque, è che dopo aver presentato una lunga trattazione il cui tema è la centralità di Cristo, e che smonta completamente qualsiasi pretesa di una salvezza che possa sminuire il ruolo di Cristo, fosse pure per affermare un qualche ruolo ancora plausibile per la Legge, o per il popolo dell’Antico Patto – ecco che la prima cosa che fa, l’autore, è quella di presentare questo strano monito del capitolo 6. Perché lo fa? Vorrebbe forse sottintendere che la grazia di Dio in Cristo ha una portata limitata, e che esiste un punto di non ritorno, superato il quale non è più applicabile? E’ davvero un’esortazione ai cristiani a badare di non cadere così in basso che neppure la croce di Cristo sarà più in grado di operare alcuna redenzione?

Non posso dire con assoluta certezza – anche se la trovo un’ipotesi persuasiva – che Eb. 1:1 – 5:10 sia un testo dottrinale già in circolazione cui poi qualcuno – un apostolo o qualcuno che ha ricevuto un incarico in tal senso da un a postolo – ha sentito di dover fornire una più compiuta spiegazione nella seconda parte del testo, o se, semplicemente, si tratta dello stesso autore che ha dedicato i primi 5 capitoli a riassumere il centro del messaggio Cristiano per poi applicarlo al contesto specifico di credenti cui si sta rivolgendo. Ma il primo punto che vorrei sottolineare è proprio questo: non comprendiamo nulla di questo scritto, e forse dell’intero Nuovo Testamento, se prescindiamo dal fatto che il culmine e il centro del suo messaggio non è la salvezza, ma è l’autore della salvezza, vale a dire Cristo. Se Paolo sembra parlare troppo di grazia, e Giacomo sembra parlare troppo di opere, la lettera agli Ebrei ci ricorda che non parleremo mai troppo di Cristo, e che in Lui ogni cosa trova il suo senso e la sua giusta collocazione. “come scamperemo se trascuriamo una così grande salvezza?” domanda retoricamente l’autore della lettera in 2:3, ma questa salvezza è grande, non perché sia grande colui che la riceve, e neppure perché sia grande la sua realizzazione concreta (su cui ben poco ci viene detto), ma piuttosto, perché è grande il suo autore, Cristo, superiore agli angeli, superiore alla legge, superiore al creato, superiore a Mosé., sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek.

Ma qui appunto l’autore si ferma e dice, sostanzialmente, “Sì, Melchisedek… ma voi che cosa potete capirne? Dovrei dirvi un sacco di cose e invece mi tocca parlarvi di nuovo delle cose che dovreste sapere da tempo, in cui dovreste voi stessi insegnare agli altri”. E, dicendo questo, ci pone sostanzialmente davanti un rischio per la chiesa di ogni tempo. Un rischio in cui la chiesa di ogni tempo è incorsa tante volte, anche – a mio avviso – perché si è troppo lasciata spaventare da versetti come questi.

Ricordo che, nei primi anni della mia conversione, scoprii – con una certa sorpresa – che quella delle conversioni multiple era (e forse è ancora) un’esperienza abbastanza diffusa, specialmente fra i figli di famiglie già evangeliche. Capita a volte che si abbia un’esperienza di “conversione” in età abbastanza precoce, a volte a seguito di pressioni in famiglia o presso campi biblici (ovviamente un ambiente particolare), e si accetti il Signore – o comunque ci si renda conto di averlo accettato - e dunque si chieda il battesimo; poi si ascoltano un paio di predicatori che asseriscono con grande sicurezza che il vero credente non pecca e che il credente che cade nel peccato probabilmente non è un vero credente, e il ragazzo entra in crisi e, per maggior sicurezza, si “converte” di nuovo. E questo spesso non accade una volta sola – perché la realtà del peccato purtroppo ci accompagna costantemente, ma questo sarebbe il tema di un’altra predicazione. Finisce che allora ci si continua ad interrogare sull’autenticità della propria conversione e si può anche arrivare a concludere che l’esperienza fatta non era autentica, e che è bene ripeterla. E’ possibile che già nel 1° secolo, forse, in ambienti dove si sottolineava tanto l’importanza della consacrazione e di un cammino di santificazione, questa soluzione potesse essere operativa già in epoca così antica. La soluzione prospettata dall’autore dell’epistola – lasciatemela chiamare così, non foss’altro per semplicità – agli Ebrei, è abbastanza chiara, e non passa – come ci aspetteremmo – per una riaffermazione della salvezza per fede, né per una sottolineatura dell’importanza delle opere. Passa piuttosto per due punti, e poi per una sfida.

Il primo punto: il solo fondamento della nostra Salvezza, è il Salvatore: Cristo. E’ una grande salvezza, che nessuno dovrebbe mai pensare di poter trascurare o ignorare. Cristo è il centro e l’autore della Rivelazione (Eb. 1:1-2). Non potrebbe esservi alcun contatto, alcuna comunicazione fra l’uomo e Dio, se Dio non avesse aperto un canale di comunicazione: e questo canale è il Figlio, Cristo. (2) Egli è l’autore e il centro della Creazione (1:3), ed è superiore a tutte le creature, anche alle più alte, agli angeli: lo è sia in quanto uomo perfetto, sia in quanto Dio – tant’è vero che gli angeli stessi lo devono adorare; (4) la sua stessa natura divina lo rende anche superiore a Mosè, sommo legislatore e rivelatore della prima legge e del primo patto (5) è autore di un riposo eterno per coloro che lo hanno ricevuto (6) adempie le funzioni di perfetto sommo sacerdote , ovvero è Lui che offrendo se stesso in sacrificio per i peccati apre a tutti noi la strada alla salvezza.

Il secondo punto è di cercare di conoscere su Cristo, di assimilare di Cristo, tutto quanto può essere conosciuto e assimilato. Non ci viene chiesto di tornare ad ogni caduta o ad ogni momento di incertezza al momento della conversione, di rimettere in discussione che quell’esperienza sia stata o meno autentica. Anzi, secondo quanto io capisco, proprio questo è il rischio da cui Ebrei ci mette in guardia: non tornate sempre su queste cose elementari e che conoscete già fin troppo bene – ci dice.

Non sono poche le comunità e gli autori evangelici che brandiscono Ebrei 6 come una spada per dimostrare che il credente che non vive un cammino di consacrazione rischia di perdere la salvezza ricevuta in dono, e tuttavia mi pare che leggere Ebrei 6 in questo modo sia fuorviante e perda di vista il punto che induce l’autore a scrivere queste parole. La sua esortazione di partenza non è “comportatevi bene”, ma “non ritornate sempre sugli insegnamenti elementari sulla fede e sulla salvezza” – e la “perdita della salvezza” di cui si parla qui (se è davvero di questo che si parla), è certo una perdita molto diversa e molto più tragica di quella predicata da queste comunità e questi autori, dato che si parla di una salvezza perduta per sempre, irrimediabilmente. Anche se può essere difficile per un predicatore, uno scrittore, una chiesa, dover rinunciare allo spauracchio dell’inferno – che può essere comodissimo – per convincere i fedeli a comportarsi da bravi cristiani timorati da Dio, consentitemi però di dire che se Dio avesse voluto che la paura dell’inferno fosse la chiave e la base del nostro agire etico, avrebbe dato probabilmente un vangelo diverso da quello che ci ha dato. Personalmente ascolto con un certo disagio predicatori – o leggo libri – il cui messaggio è: “Attenti a non esservi illusi”. Posto che fra di noi ci fosse davvero qualcuno che si è illuso di essere un credente, e però non lo è, ben venga se qualche suo peccato anche grave gli fa comprendere questo e lo porta a ravvedersi e a convertirsi davvero, che senso ha ammonire i credenti a stare attenti a non essere illusi? Comportatevi bene così non avrete motivo di mettervi in discussione – e andrete all’inferno in maniera più indolore? Perché è naturale che non sono le nostre cattive azioni a fare di noi degli illusi, ma è il fatto che ci siamo illusi che ci indurrebbe a compiere delle cattive azioni… Tuttavia sento anche di dover affermare con grande serenità ma anche con grande forza che né Dio, né Cristo, né la Scrittura illudono o deludono mai. Non posso escludere che qualcuno davvero sia un “illuso” ma credo anche che sono eccezioni – che andrebbero viste una per una, caso per caso. Ovviamente, è diverso il discorso dei “bugiardi” – per esempio, molti che oggi brandiscono la croce come una spada per affermare “Qui comandiamo noi”, temo che nella maggior parte dei casi non sono né credenti né illusi, ma che siano semplicemente dei bugiardi, che per convenienze varie trovano opportuno indossare una veste Cristiana. Ma torniamo ora al nostro testo.

L’esortazione è di lasciare l’insegnamento elementare (iniziale; le prime cose che vengono insegnate al neofita) intorno a Cristo e di tendere a quello superiore (a quello che lo completa). Il contesto della lettera – oltre che la grammatica – ci fa capire che il contrasto non è fra un insegnamento elementare su Cristo, e uno superiore che riguarda altre – diverse – realtà, bensì fra un insegnamento elementare, un annuncio iniziale (per dirlo più letteralmente) su Cristo – che è quello che ha a che fare con il ravvedimento, la fede, il battesimo, la resurrezione ecc. – e un insegnamento superiore che perfeziona e completa il precedente, ma che è sempre su Cristo, e che è quello che si incarna nel seguito della lettera dove viene ripreso il tema del sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek e del sacerdozio superiore di Cristo, che diventa la chiave per comprendere tutta la storia dell’Antico Testamento ma anche la storia presente – una storia fatta di persecuzioni e che deve culminare, di lì a poco, con l’assedio di Gerusalemme e la distruzione del tempio e la seconda diaspora degli Ebrei (uno dei pochi dati, fra l’altro, che ci offre qualche indicazione almeno sulla datazione e sull’ambientazione dell’epistola, è proprio il riferimento al tempio come a qualche cosa ancora operante ma prossimo ad essere superato – che ci fa pensare che ci troviamo a ridosso del 70 d. C., forse solo pochi anni prima).

Incastonato in tutto questo, l’enigmatico, terribile capitolo 6. Per il quale sono state proposte almeno 3 interpretazioni diverse. La prima è quella – assai in voga nel mondo delle chiese Pentecostali, significativamente più fra di loro che nel mondo cattolico – secondo cui l’insegnamento sarebbe: “Attenzione, perché la salvezza è per i non credenti; ma se dopo aver creduto, cadete non c’è più luogo ad alcuna salvezza: è come se crocifiggeste di nuovo Cristo e dunque può restare solo l’attesa di un giudizio”. Il secondo: il monito sarebbe per i falsi credenti, per gli illusi – e sarebbe, per l’appunto: “Attenti perché se voi frequentate la chiesa e conoscete perfettamente la verità che ha a che fare con la salvezza, ma nonostante questo non fate vostra questa verità, continuerete a peccare ma a causa del vostro rifiuto non ci sarà nessuna salvezza per voi, è come se crocifiggeste di nuovo Cristo e potete aspettarvi solo uno spaventoso giudizio. La terza è che questa sia solo un’ipotesi. Beh, certo parla così ma poi al versetto 9 si aggiunge: “Benché parliamo così siamo persuasi a vostro riguardo di cose migliori e attinenti alla salvezza” – e allora vedete che si parla di qualche cosa che non è reale…

In qualche modo faccio mia questa terza posizione, ma credo che vada un po’ modificata. Non siamo, a mio avviso, in presenza di un’ipotesi, in questo versetto, ma di una vera e propria sfida. L’Iddio che sta dietro la stesura di questo testo e del Nuovo Testamento in generale, è lo stesso che – tanto per fare un esempio – accetto di battersi con Giacobbe quasi alla pari, e di uscire addirittura apparentemente sconfitto (anche se il testo dice che Giacobbe ha vinto, non che il suo avversario abbia perso).

Il capitolo 6 della lettera agli ebrei ci presenta uno di quegli scenari davanti ai quali la mente umana vacilla, e che però sono tipici dell’agire di Dio. Da una parte, sappiamo come finirà la storia. Sappiamo come finirà la battaglia. Sappiamo chi vincerà la sfida. Come può l’autore della lettera in oggetto, parlando a una pluralità di lettori – e a un’enorme pluralità: non è una chiesa specifica e forse non è neppure un gruppo di chiese. Forse sono tutti i cristiani di tutte le età. Anche se mi sono fatto l’idea che dietro questo testo ci siano anche dei destinatari concreti, che sono forse una chiesa, forse un gruppo di chiese, forse un gruppo di credenti – penso anche che se in questo caso lo Spirito ha ispirato l’autore a non indicare un destinatario, voleva con questo sottolineare un punto preciso: che quello che veniva scritto era rivolto a tutti i cristiani di tutte le età non soltanto nei principi generali, ma anche nei dettagli situazionali. Così in qualche modo sento come se scrivesse anche a noi, a me “Siamo persuasi di ben altre cose a vostro riguardo?” Se il destinatario è – come è – generico, non è costituito tutto di credenti che l’autore conoscesse intimamente e personalmente, come poteva scrivere a tutti loro, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, “Tuttavia, “Ma abbiamo fede (il verbo è proprio”peitho – indica spesso, nel Nuovo Testamento, un vero e proprio atto di fede), riguardo a voi , di cose migliori e attinenti a salvezza”? Gli autori e i predicatori che usano questi testi per parlare di una salvezza da mantenere e che si può perdere sarebbero a questo punto molto più seri e più coerenti, perché di solito fanno precedere o seguire le loro filippiche da un prudenziale “Non conosco la vostra situazione “ e le concludono con un ancor più prudente “Il Signore conosce i cuori”. Il versetto 9 ci pone invece, in maniera peraltro estremamente poco teologica e molto immediata, di fronte allo scenario di quella che in gergo un po’ tecnico si chiama “escatologia realizzata”. Quella sfida è già vinta, possiamo già essere “persuasi”, avere fede nel fatto che il credente è salvato, perché Cristo – e non lui (se fosse lui non potrebbe esservi altro che l’attesa terribile di un giudizio che non lascia scampo) - è l’autore della sua salvezza. Potremmo anche rileggere i vv. 4 – 6, e immaginiamo che queste parole – vere – Dio non le stia dicendo in prima persona a noi, ma a Satana, per penetrare meglio nel senso di questa sfida. Una sfida vinta, ma una sfida vera.

E tuttavia, quella sfida è in corso. E, in questo senso, Eb. 6 è più di un’ipotesi: quello che c’è scritto è vero. E – tecnicamente – è possibile. Coloro che cadono dopo avere gustato la gioia della salvezza, non possono più né ravvedersi, né convertirsi perché hanno crocifisso il Figlio di Dio. C’è l’escatologia realizzata, che mi porta a dire che nessun credente ricadrà sotto questo tipo di giudizio perché la sfida è stata già vinta da Dio. E c’è il richiamo forte a non essere solo uno spettatore passivo, di questa escatologia realizzata – ma, oggi, devo dire., a non essere solo uno spettatore passivo della realizzazione di quest’escatologia – perché il mio impegno, il mio cammino di santificazione e di consacrazione – che costituiscono doni della grazia di Dio non meno di quanto lo sia la salvezza - fa pienamente parte dei mezzi che Dio ha scelto di usare per realizzare quest’escatologia. Camminiamo, o lottiamo, conoscendo già l’esito della battaglia e la meta del cammino, ma questo non ci porta a fermarci, o a cambiare strada, o a smettere di combattere, ma semmai ci sprona a farlo con impegno ancora maggiore – ma su questo diremo ancora qualcosa fra pochissimo. Ma sarà invece il rimettere continuamente in dubbio – sulla base delle nostre opere – la veridicità della salvezza ricevuta in dono, il timore di esserci illusi, la paura di non avere usato la formula giusta nel momento che siamo andati al Signore (perché se avessimo usato la formula giusta la conversione sarebbe stata autentica e allora non ci sarebbe stato luogo a cadute) – a fermarci, a bloccarci, a impedirci di andare avanti nel nostro cammino.

E concludiamo allora parlando proprio del cammino, e chiedendoci: ma dunque, Eb. 6 – e in generale la lettera agli Ebrei – non ha proprio nulla da dire ai cristiani in rapporto al loro cammino di fede e di consacrazione a cui sono chiamati? Penso che in realtà invece dice alcune cose molto importanti, e – avviandomi verso la conclusione – ne voglio ricordare almeno due: La prima. Nel momento stesso in cui invita quanti una volta hanno accettato Cristo nella loro vita a non stare a porre di continuo sempre lo stesso fondamento, invita anche coloro che NON hanno ancora fatto questo passo, a farlo. Come scamperemo se trascuriamo una così grande salvezza? E’ una domanda che non può parlare soltanto al cuore dei credenti. Parla anche – soprattutto – al cuore di chi credente, nel senso del NT del termine, ancora non è. Cristo è il centro di tutto, è il tema centrale della lettera agli ebrei. E’ il centro anche del tuo cuore? Non si accontenta lui di stare ai margini, o anche accanto. Si può essere molto vicini a Gesù, conoscere tutto di lui, essere anche convinti dell’altezza morale del suo messaggio e della sua vita, ma fino a quando non gli spalanchiamo la porta del nostro cuore, Lui terrà sempre la stessa posizione espressa da quelle parole dell’Apocalisse: io sto alla porta e busso. Dov’è Cristo nella tua vita e nel tuo cuore? AL centro, o alla porta, a bussare in attesa che tu gli risponda?

Cristo al centro ha però un profondo significato anche per i cristiani. Cristo al centro è la vera ragione dell’agire etico o – se preferite – del cammino di santificazione e consacrazione del cristiano. Non è la paura di un castigo, ma questo non vuol dire che non ci siano ragioni per il credente per sforzarsi di conformare la sua vita ai modelli espressi nella scrittura. E’ un po’ come in una famiglia – vi pare che abbia più senso compiacere il proprio marito o la propria moglie perché avete paura che se no vi lascia e divorzia, o perché lo amate o la amate e volete in tutti i modi farglielo vedere? Ecco, Dio non vuole da noi dei cristiani che vivono nella costante paura che lui divorzi da noi, ma che proprio perché sanno che lui non divorzierà mai, non verrà mai meno alle sue promesse, cercano in tutti i modi di manifestare che lo amano.

Di Roberto Cappato (robocap1@alice.it)




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