mercoledì 13 febbraio 2013


Dio guarisce.

Primo episodio: il lebbroso

Marco 1: 40,15
40 Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». 41 Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». 42 Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. 43 E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: 44 «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». 45 Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.

Da un po' di tempo vorrei parlare di guarigioni. Sia perché nella nostra comunità ci sono state diverse persone malate o con situazioni incerte o con persone vicine malate, sia perché il fatto di operare guarigioni è stata una delle attività principali di Gesù nel suo viaggio sulla terra. Confesso di non aver dato mai particolare rilievo alle guarigioni e che finora il mio problema è stato più quello di spiegare perché in alcuni casi Dio non interviene guarendo, che non quello di concentrami sulla sua potenza nel guarire. Vorrei quindi iniziale alcune letture di guarigioni nei vangeli per riconquistare questa grande promessa dei vangeli: Dio guarisce! E' vero che l'azione di Dio va molto al di là della semplice guarigione fisica, e che la salvezza è una realtà che sorpassa il fisico. Ma il regno di Dio comincia già qui sulla terra e vedere l'intervento di Dio davanti a situazioni apparentemente irrisolvibili è spesso un modo per aprirsi ad un orizzonte di salvezza più ampio. Del resto, se ci sono malattie antiche come la lebbra ed altre che abbiamo scoperto solo recentemente, come l'AIDS, il fatto che ci si possa ammalare e morire in modo precoce, o comunque soffrire è uno dei problemi più grandi dell'umanità e non è un caso che anche negli stati moderni spendiamo tanto nella sanità (nei paesi europei tra il 5 e il 10 % del PIL). In un contesto completamente diverso, e vicino al testo che stiamo per analizzare, si può dire che in termini di spesa di pagine è curioso che per la lebbra l'antico testamento consacri due interi capitoli, il 13 e il 14 del Levitico per spiegare come identificarla e come decretarne la guarigione! E non ho contato il numero di guarigioni dei vangeli e degli Atti, ma non sono poche!
Leggiamo quindi questo breve episodio di guarigione, il secondo nel vangelo di Marco che riguarda un individuo preciso dopo la suocera di Pietro e che ci mostra l'inizio del cammino di Gesù verso l'uomo nell'intento di servirlo ed aiutarlo nei suoi diversi problemi.

1. Allora venne a lui un lebbroso.
Non siamo sicuri che la lebbra di cui si parla nella Bibbia sia la stessa malattia che conosciamo oggi, definita come morbo di Hansen, e potrebbe trattarsi di un modo generico di indicare piaghe o ulcere. Comunque sia, il tipo di malattia in questione è significativo: la lebbra è una malattia che provocava esclusione sociale. Le indicazioni del Levitico avevano probabilmente finalità preventive, a scopo di salvare il resto del popolo; ma la "durezza del cuore umano" che ha trasformato lo spirito di diverse leggi lo ha fatto anche con questa e quindi i lebbrosi erano persone tenute alla larga, anche perché probabilmente esteticamente ripugnanti. Gesù invece accoglie questo lebbroso, ed il semplice fatto di accoglierlo significa rompere una barriera sociale. Saremmo disposti ad andare verso malati di malattie infettive? Un primo passo per affrontare la malattia seguendo il modo di Gesù è quello di non avere paura della malattia.

2. lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!».

Il lebbroso ha sicuramente chiaro che chi è davanti a lui ha qualcosa di speciale. L'atto di genuflettersi non è neutro, indica grande rispetto per chi si ha davanti; alcune versioni traducono che lo adorava. E quando dice se tu vuoi puoi guarirmi è veramente convinto che in Gesù c'è qualcosa di speciale, c'è un potere soprannaturale che è in grado di operare guarigioni. Ma mi interessa molto questo verbo: se vuoi, puoi. Mi fa venire in mente due grossi ulteriori principi che riguardano il processo di guarigione:
a. Se vuoi: ma è forse possibile che Dio non voglia? Molti erano convinti che la lebbre fosse una punizione divina, risultato di peccati commessi dalla persona o dalla sua famiglia e quindi probabilmente pensavano di essere maledetti da Dio. Pertanto pensavano che non sempre Dio volesse guarire, perché l'idea di una malattia punitiva e di una punizione correttiva era radicata nella mentalità giudaica - si può pensare anche agli amici di Giobbe. Possiamo chiederci: ogni volta che non si guarisce da una malattia Dio non ha voluto? Oppure non ha potuto? Molta teologia tradizionale, che dà molta enfasi alla sovranità di Dio direbbe che non ha voluto: Dio rimane sovrano e se non vuole guarire non guarisce; molta teologia moderna direbbe il contrario e cioè che Dio non può! Compatisce con chi soffre, ma è meno onnipotente di quanto crediamo. Magari perché sceglie di non essere onnipotente, ma tuttavia non è onnipotente. E noi cosa crediamo? Possiamo dire che Dio non voglia che certi guariscano o che non possa guarire? Personalmente credo sia difficile andare ad di là di alcuni principi generali, e che nei singoli casi ognuno debba poi trovare una sua risposta. Quindi è vero che Dio può non volere, visto che una guarigione non è per forza un bene assoluto, ma da qui a dire che Dio non vuole la guarigione di bambini malati di leucemia, di padri di famiglia malati di cancro o simili, di strada ne corre. Preferisco allora spostare il problema, proprio perché qui siamo davanti ad un miracolo e cominciare a chiedermi perché invece tante volte Dio guarisce.
b. Se vuoi, puoi! non se vuoi devi...
Un secondo principio consiste nel considerare l'umiltà mista a coraggio di chi chiede: non ha detto a Dio: siccome tu puoi tutto, allora devi guarirmi! L'atteggiamento è molto umile e non è quello di uno che protesta i suoi diritti contro il sistema sanitario nazionale. Possiamo dire che Gesù non è un medico perché la sua guarigione non deriva da una diagnosi e dall'applicazione di un principio scientifico, ma da un rapporto personale, da un incontro reale. E questo lebbroso non chiede proprio niente. Chiediamoci allora quando vogliamo guarire o quando vogliamo che qualcuno guarisca quali riflessioni abbiamo in mente: pretendiamo che siccome abbiamo pregato allora la persona deve guarire o siamo disposti a dire se vuoi puoi? Accettando che in questa frase c'è anche la possibilità che Dio non voglia? Molto è qui: siamo disposti ad abbandonarci completamente nella mani di Dio, nel male come nel bene o no?
c. Sono convinto che se vuoi puoi!
Il lebbroso che si fa avanti a chiedere non solo è umile, ma è anche coraggioso perché si fa avanti. Ha capito che Gesù è disponibile e che ha dei sentimenti. Non fa preferenze ma vuole anche vedere che chi ha bisogno si faccia avanti. Iniziamo quindi a vedere un terzo principio: "Senza fede è impossibile piacergli!" Ci avviciniamo per chiedere guarigione ad un Dio onnipotente che se vuole può. Ma bisogna realmente e profondamente credere che può, proprio come questo lebbroso.
Penso che da questo punto di vista in noi ci sia una buona dose di scetticismo, suffragato dal mondo moderno in cui viviamo che tutto ama, eccetto il soprannaturale. Ed accanto a questo ci sono le numerose volte in cui abbiamo pregato senza ottenere risposta. Che non devono tuttavia cancellare quelle in cui invece ne abbiamo ottenuta una...

3. 41  Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». 42 Subito la lebbra scomparve ed egli guarì
L'approccio di Gesù non è quello di un medico si diceva. Non che i medici siano necessariamente freddi, ma il quadro in cui operano è diverso: non hanno bisogno di essere mossi a compassione, fanno semplicemente il loro mestiere. In questo caso invece vediamo Gesù commuoversi, e produrre una guarigione immediata, istantanea. Dobbiamo cercare di riconquistare questa fede e la paradossale normalità di queste risposte. Un caro fratello francese ci ha ricordato ultimamente che è strano che ci stupiamo che Dio agisca: dovrebbe essere la normalità! Lo diceva dopo che i medici hanno capito che aveva un dolore al petto non dovuto al suo pace-maker ma ad un muscolo della spalla. Quando la zia di mia moglie, a cui era stato diagnosticato un cancro in fase terminale ed incurabile, ha cominciato a stare meglio fino al punto di dirci: sono guarita, noi ci siamo sorpresi. Eppure avevamo pregato! Quindi ci sorprende che Dio dica "lo voglio". Forse non lo conosciamo abbastanza o non chiediamo con quella fede del lebbroso. Questo miracolo e le tante testimonianze che abbiamo ci devono ricordare che Dio agisce e guarisce, oggi come ieri e come domani. Non possiamo cancellare quelle volte che non vediamo guarigione, ma queste non devono cancellare le guarigioni che avvengono!

4. 44 «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro»

Perché Gesù non vuole che questo miracolato diffonda la notizia e vada piuttosto a pagare? Perché come ripetiamo ancora, non è un medico né un centro di miracoli gratuiti! Ed è venuto per guarire, ma ancora prima per annunciare. Quindi sa bene che una pubblicità erronea dei suoi miracoli potrebbe attirare tanta gente che non è interessata al suo insegnamento, che non è interessata a cambiare il mondo, ma che vuole solo essere guarita. Ed infatti, visto che disobbedisce, succede poi che c'è troppa gente al punto che Gesù non può più parlare.
Questo significa che una chiesa deve operare guarigioni, ma non farne una bandiera o una pubblicità come purtroppo a volte capita di vedere: ho sentito parlare di centri miracoli e simili, mentre queste guarigioni se avvengono avvengono in un rapporto intimo e diretto, come abbiamo visto.
E perché pagare? Fa quasi venire in mente gli ospedali di oggi dove bisogna pagare il ticket! Gesù pretende il ticket spirituale per le guarigioni che opera? Certo che no, ma questo pagamento ha due sensi. Il primo serve a far stare zitti i religiosi del tempo. Cercano soldi e così li avranno. Inoltre una volta acclarato che il lebbroso è guarito non potranno mentire riguardo a Gesù negando i suoi miracoli. Ma ancora di più invita a capire che le malattie non sono altro che il segno di qualcosa di più profondo. Per questo la parola usata nel testo originale non è tanto guarigione, quanto "purificazione". Le malattie sono il segno di un mondo contrassegnato da una frattura dolorosa tra il creatore del mondo, e le sue creature. Una frattura che la Bibbia chiama peccato. Questo non significa che siccome abbiamo commesso un certo peccato allora riceviamo come punizione una certa malattia, ma che siccome siamo peccatori siamo soggetti ad ammalarci. E' un problema di natura umana, di come è fatto il nostro mondo. Gesù comincia con il curare le malattie fisiche per andare a curare il cuore dell'uomo, che è ammalato di una malattia a cui non sfugge nessuno, quella del peccato, della frattura responsabile tra Dio e l'uomo. Si paga per una guarigione per capire che niente è gratuito; e come si paga un'offerta per una malattia che in fondo si riesce a guarire, così Gesù paga per noi un'offerta che nessuno può pagare: paga per i nostri peccati, morendo sulla croce.

Dobbiamo sforzarci di tenere unite queste due realtà. La guarigione fisica non è che un preludio di quella spirituale. Dio la opera anche oggi e merita tutta la nostra attenzione. Eppure il vangelo non si ferma qui e vuole una guarigione più profonda, non un centro di guarigioni che rischia di limitare l'annuncio, come si vede dal versetto finale. Abbiamo tutti bisogno di un qualche tipo di guarigione.

La Bibbia e l'economia

Luca 16,19-31

Il ricco e il mendicante Lazzaro
19 «Or vi era un uomo ricco, che si vestiva di porpora e bisso, e ogni giorno banchettava copiosamente.20 Vi era anche un mendicante chiamato Lazzaro, che giaceva alla sua porta tutto coperto di piaghe ulcerose, 21 e desiderava saziarsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco; e perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. 22 Or avvenne che il mendicante morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abrahamo; morì anche il ricco e fu sepolto. 23 E, essendo tra i tormenti nell'inferno, alzò gli occhi e vide da lontano Abrahamo e Lazzaro nel suo seno. 24 Allora, gridando, disse: "Padre Abrahamo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito per rinfrescarmi la lingua, perché soffroterribilmente in questa fiamma". 25 Ma Abrahamo disse: "Figlio, ricordati che tu hai ricevuto i tuoi beni durante la tua vita e Lazzaro similmente i mali; ora invece egli è consolato e tu soffri. 26 Oltre a tutto ciò, fra noi e voi è posto un grande baratro, in modo tale che coloro che vorrebbero da qui passare a voi non possono; così pure nessuno può passare di là a noi". 27 Ma quello disse: "Ti prego dunque, o padre, di mandarlo a casa di mio padre, 28 perché io ho cinque fratelli, affinché li avverta severamente, e così non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". 29 Abrahamo rispose: "Hanno Mosè e i profeti, ascoltino quelli". 30 Quello disse: "No, padre Abrahamo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno".31 Allora egli gli disse: "Se non ascoltano Mosè e i profeti, non crederanno neppure se uno risuscitasse dai morti"».

Qualcuno potrà forse pensare che la Bibbia sia un testo che si occupa di spiritualità, di fede, di rapporto con Dio e che di una materia come l'economia, così attuale oggi in tempi di crisi e di scandali finanziari, resti lontana dalle Sacre Scritture. Niente di più falso. L'economia è nel cuore dell'attenzione delle parole di Gesù, perché riguarda la gestione dei beni della vita di ogni uomo, e la ridistribuzione dei beni tra gli uomini, permettendo una vita dignitosa o meno. Questa parabola, che si inserisce in un contesto in cui Gesù parla proprio di ricchezza e povertà riguarda proprio l'economia, senza ovviamente scollegarla dalla spiritualità. Ma esiste forse una spiritualità che possa trascurare la concretezza della vita?

1. I contrasti

La parabola inizia descrivendo due situazioni diametralmente opposte: il ricco, che non ha nome e viene indicato solo per la sua opulenza, sta materialmente bene. Si veste con stoffe care come la porpora, particolarmente costosa da produrre ed il bisso, una specie di seta marina prodotta da un mollusco ed usato per i vestiti di persone importanti. Mangia a volontà e al di sopra dei suoi bisogni, in tipico stile romano, magari vomitando quello che era di troppo. E poi ha una casa con una bella tavola con una porta, elemento di separazione tra lui e Lazzaro, il povero che a questa porta siede in attesa che qualcosa caschi. Lazzaro quindi non ha casa, ma giace davanti alla casa di un altro; non ha cibo ed elemosina quel che cade dalla tavola del ricco; non si sa se abbia vestiti o meno, ma come il ricco è coperto di vestiti lui è coperto di piaghe. Quindi è sporco e malato. Mentre si presume che il ricco inviti amici ai suoi banchetti, Lazzaro ha come persone che lo circondano dei cani. E questo atto di leccare le ferite non ha niente di romantico, al contrario indica che questi cani, considerati in Israele animali impuri e pericolosi, cercavano di mangiarlo ed abbassavano ulteriormente la sua situazione di povero.

E' un'immagine attuale, paradigmatica di quel che capita oggi? Direi che non potremmo trovare di meglio nella Bibbia: in una rapida rassegna su internet trovo che buttiamo via oggi circa la metà del cibo commestibile che produciamo: circa 2 miliardi di tonnellate l'anno. Questo mentre alcuni paesi in via di sviluppo hanno ancora situazioni di fame; parlavo con un amico che è un dirigente del Carrefour a Lucca e mi diceva che solo nel Carrefour di Lucca si buttano via 100.000 euro di cibo l'anno - lui cercava di impegnarsi per scendere alla metà. Oppure vogliamo pensare a quelle immagini di bambini che rovistano nelle discariche in cerca di materiali da riciclare e vendere, rischiando continuamente di ammalarsi per la tossicità dell'ambiente? Personalmente ho letto e visto filmati su discariche in Kenia, in Cambogia, ma non ne mancano certo nel resto del mondo. A me, sempre per esperienza personale, hanno sempre fatto molto pensare le macchine vecchie che vengono dismesse qui in Europa perché non conformi alle norme anti-inquinamento e spedite in Africa. Ne ho viste tante in Togo, tutte vecchi Toyota, Mitsubischi e altro, che inquinano altri ambienti in cui non ci sono normative. Viviamo in un mondo che la parabola del ricco e di Lazzaro descrive alla perfezione, di cui siamo tutti un po' complici senza sentirci responsabili in prima persona.

2. La punizione

Sbaglierebbe che volesse leggere in questa parabola solo un messaggio di salvezza per chi è povero. Certo, il concetto di povertà tanto nell'Antico che nel Nuovo Testamento indica una condizione particolare, spesso una dimensione di vicinanza con Dio, ma non in modo così immediato e diretto. Mi spiego: nell'Antico Testamento si parla spesso degli "anawim" termine ebraico che non indica semplicemente la mancanza di mezzi di sostentamento, la povertà materiale; indica una conduzione di persecuzione, può essere tradotto con misero, oppresso, umile, povero ed indica una categoria di persone che vive in una dimensione spirituale ed umana per cui, priva di ogni appoggio e perseguitata dal potere, trova solo in Jhavéh la forza di andare avanti. Lo stesso possiamo dire del Nuovo Testamento, di cui ricordiamo il sermone sulla montagna: in Matteo di dice che i poveri in Spirito erediteranno il regno di Dio, in Luca semplicemente i poveri: ma si fa riferimento appunto a questa categoria e non si esalta la povertà in quanto tale, come se la mancanza di mezzi di sostentamento potesse di per sé essere motivo di salvezza.
Il punto centrale della parabola tuttavia è un altro. Non ci viene proposta per dirci che Lazzaro è stato salvato o come lo è stato: questa parabola è un avvertimento sull l'uso della ricchezza di cui disponiamo e sulla nostra capacità di indignarci rispetto alle ingiustizie che vediamo nel mondo. Al cuore della parabola c'è il ricco che dopo aver goduto viene punito, e quel che si sottolinea è l'ineluttabilità della punizione.

3. Le parole di Lazzaro.

In una scena che è veramente "parabolica", nel senso di esemplare ma non reale assistiamo ad un dialogo tra morti, che mai altrove troviamo nelle sacre scritture e che ci indica la natura iperbolica del racconto. Non ci serve a sapere quali siano le dinamiche della comunicazione tra inferno e paradiso, ma a capire quanto è grave trascurare il problema della povertà se si ha il potere di far qualcosa per ridurla.
a. La prima parola che dice Lazzaro è un'invocazione di aiuto ad Abramo. Ma non pare aver capito molto dei motivi della sua situazione. Considera ancora Lazzaro come una specie di suo servitore che, anche dopo la morte, dovrebbe muoversi per dargli sollievo - senza ricordare che quando era in vita lui non gli aveva dato neppure da mangiare, se non i resti. Il ricco non ha capito che il principio secondo cui si raccoglie quello che si è seminato è veramente reale: se ci si è sollazzati nel cibo e nella ricchezza trascurando chi sta male, non si deve poi sperare di poter avere sollievo: l'inferno è una cosa seria e non ci si sta bene... Ed è il frutto delle scelte fatte in vita. E d il ricco le ha fatto, come noi oggi abbiamo fatto le nostre.
b. La chiarezza della scrittura. La seconda parola del ricco potrebbe indicare un cambiamento nel suo cuore, ma a ben guardare sembra che il suo interesse principale stia nel salvare qualcuno della sua famiglia... Comunque si è reso conto che trascurare la povertà è sbagliato, quindi pensa che almeno i suoi fratelli possano salvarsi. Ma la risposta di Abrhamo è chiara: hanno Mosé ed i profeti. E' una risposta estremamente pertinente. Ricordiamo il giubileo nel libro del Levitico di Mosé o le numerosissime esortazioni dei profeti contro la ricchezza malvagiamente acquistata? (Isaia 58, Amos e Michea per intero sono solo esempi). L'antico testamento rigurgita di avvertimenti e parole che avvertono: non si può celebrare culti, dirsi figli di Dio, popolo eletto o altro e trascurare le ingiustizie prodotte dall'ineguale distribuzione dei beni.
C'è quindi un avvertimento chiaro per ogni lettore di Bibbia, per ogni frequentatore di chiesa: quale percentuale delle nostre entrate va ad ad aiutare i poveri? Quale fetta del nostro bilancio di famiglia è destinato a chi ha bisogno? E come chiesa: quale quota diamo a persone in difficoltà? Attenzione perché se prendiamo sul serio questa parabola rischiamo di avere una fede finta, mutilata.
c. La cecità della ricchezza. L'ultimo tentativo del ricco e di dire che un morto risuscitato può essere un argomento convincente per cambiare, per rendersi conto che lasciare i poveri nella loro condizione continuando a sollazzarsi è sbagliato. L'idea dei morti che ritornano viene spesso usata nell'antichità come elemento convincente. Ma Gesù, parlando per bocca di Abrahamo la esclude, ed è categorico. Eppure sembrerebbe fare allusione alla sua stessa resurrezione ed al fatto che da tanti non sarà creduta. Credo che ci sia un'idea importante nelle parole di Abrahamo: lo stile di vita scelto dal ricco e dai suoi rende ciechi e duri. E quando si è assuefatti da un mondo di agi e di comodità è difficile vedere la condizione di chi soffre. Quando puliti e profumati sentiamo avvicinarsi un barbone che puzza, è inutile che ce lo nascondiamo: ci fa schifo! Ci dà noia e ci viene voglia di allontanarlo, non di andare verso di lui e di aiutarlo. C'è il rischio che l'assuefazione provocata da un certo sistema in cui si è immersi ci renda insensibili anche rispetto a fatti sconvolgenti come la resurrezione di un morto. Questo messaggio allora è proprio per noi che viviamo in un mondo ricco. In questo mondo i poveri non mancano, anzi ultimamente aumentano e vivono male, ma proprio perché siamo abituati a pensarci come il mondo industrializzato, li vediamo di meno, nascosti dal manto di ricchezza che sembra ricoprire tutto.
L'impegno dei credenti deve allora essere a 360 gradi: cominciare dalle proprie tasche, continuare con il proprio stile di vita, che deve essere sobrio e non dispendioso; andare avanti con iniziative concrete di aiuto; e finire anche con scelte politiche chiare, per chi - nei limiti della furbizia umana - si propone quantomeno di favorire la ridistribuzione della ricchezza. Perché in gioco è la salvezza.


Galati 6, 10-18. La fede fuori o la fede dentro?

11 Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, ora, di mia mano. 12 Quelli che vogliono fare bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere, solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo.13 Infatti neanche gli stessi circoncisi osservano la legge, ma vogliono la vostra circoncisione per trarre vanto dalla vostra carne. 14 Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. 15 Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura. 16 E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l'Israele di Dio. 17 D'ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto il marchio di Gesù nel mio corpo.18 La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.

La parte conclusiva della lettera ai galati non poteva che essere un riassunto del punto più importante della lettera: la fede non è fatta di esteriorità e di segni visibili, ma di interiorità e di realtà basate su fatti reali, concreti, come la morte di Gesù sulla croce, che sono stati interiorizzati. Paolo non lotta per una partito, per un colore politico o per una certa parrocchia in opposizione ad un'altra: è convinto che i molestatori dei galati portino un messaggio finto, formale, fatto di esteriorità che porta ad una fede annacquata e fasulla. Per questo si è arrabbiato tanto ed ha scritto una lunga lettera. Noi a distanza di 2000 anni osserviamo questo meraviglioso testo denso e ricco di idee profonde ed ancora attuali e credo che, a conclusione di una lettura così forte, sia bello vedere l'entusiasmo di Paolo per la cosa più importante al mondo: la fede! Non ci sono solo discorsi vaghi sul bene e sull'amore: no! Concetti teologici profondi, spesso difficili. La sfida per noi oggi è quella di continuare a pensare Dio in un modo profondo, radicale, anche difficile, ma sempre critico e attento, perché la fede non diventi mai un semplice conformismo allineato con qualche vaga idea di bene che la nostra società può presentare. Paolo ha scritto con caratteri grandi, espressione per dire che quanto ha detto è importante. Non sono grandi solo i caratteri lo sono stati anche i contenuti.

  1. Fede esteriore come protezione
Durante la lettera Paolo non ha parlato molto dei suoi detrattori. Ha fatto diversi accenni, ma non ha mai esposto in modo sistematico di questo partito della circoncisione che voleva costringere i Galati a circoncidersi. Probabilmente si è limitato a controbattere alcune accuse che gli sono state rivolte o alcuni punti della dottrina di questi infiltrati. Aveva già detto che il motivo per cui questi predicatori si interessano ai galati è la separazione, l'isolarli per fini disonesti (4,17). Ora aggiunge alcuni punti. L'idea che ci siamo potuti fare è che queste persone predichino una fede che dà molta importanza all'esteriorità, a ciò che si può vedere: opere della legge, segni nella carne, come la circoncisione. E' curioso che ancora oggi esistano certi modi di vestirsi oppure certi oggetti simbolici, che in qualche modo vorrebbero rimandare alla fede che chi li porta dice di avere; si pensi agli abiti dei religiosi, alle catenine con croci, ad immagini di santi appiccicate davanti alle case o nei cruscotti delle macchine. Gli evangelici tendono ad essere sobri, ma non mancano anche nelle nostre chiese ostentazioni di pesci, di bibbie enormi con copertine di pelle, o di modi di vestire eccessivamente classici, magari per il culto domenicale... Certo, non sono imposti come gli infiltrati tra i galati volevano imporre il rispetto per le opere, tuttavia possono spostare l'accento della fede verso un'esteriorità che serve a poco. Eppure questa esteriorità ha dei vantaggi, che Paolo in queste poche parole condanna ed enumera.
  1.  
    1. Conformismo con la società che protegge
La fede esteriore è comoda perché protegge. Immaginiamo il contesto: sappiamo che Paolo ha incontrato numerose persecuzioni tra i giudei delle sinagoghe greche che visitava (Atti degli apostoli). Possiamo immaginare che anche le chiese della galazia abbiano avuto qualche fastidio da parte delle stesse sinagoghe che avevano perseguitato Paolo. E' possibile che qualche esponente di qualche chiesa abbia pensato ad una soluzione di compromesso: siamo di Cristo, però circoncidiamoci, almeno non verremo perseguitati; fino a che il compromesso è diventato regola. E' solo un'ipotesi, comunque spiegherebbe bene le parole di Paolo. Ora, se è ovvio che andare in cerca di persecuzione sarebbe da stupidi, è altrettanto vero che le chiese che più hanno inciso nella storia e che hanno fatto avanzare il regno di Dio, sono proprio quelle che non hanno temuto di essere perseguitati per il messaggio che portavano. A cosa serve a noi presentarci in modo accettabile? Una volta un fratello in Germania mi mostrava la loro chiesa che era molto bella e mi spiegava che per loro credenti tedeschi era importante fare dei locali di culto molto belli altrimenti venivano presi per sette. Ben venga che ci siano dei bei locali per fare onore a Dio, ma che la motivazione non sia quella di proteggersi dalle accuse: Cristo è venuto nella povertà! A che ci servono simboli identificanti come croci, colombe o pesci se poi non viviamo i valori che questi incarnano, o se servono solo a inserirci in un conformismo, per darci l'idea di essere qualcuno? Persino una continua preoccupazione per azioni molto ben accette, come opere di beneficenza, missioni e quant'altro, rischiano di diventare forme di attivismo volte a mettersi in mostra per farsi accettare. Niente da dire contro il vero amore e la vera solidarietà, ma gli eccessi ci sono, e vanno evitati.
  1.  
    1. E' falsa, chi la predica non la adempie
La fede esteriore è sempre falsa. Paolo smaschera gli infiltrati tra i galati dicendo che sono in fondo dei falsi. La storia della chiesa insegna: le numerose conventicole e associazioni religiose che si sono date delle ferree regole formali per portare avanti il messaggio della fede hanno sempre finito per crollare... Gli ordini monastici cattolici, che sono degli evidenti ricettacoli di ipocrisia e di frustrazione, e che finiscono per pervertire le poche persone sane che vi stanno dentro sono l'esempio più lampante; ma non mancano esempi di comunità evangeliche, come alcuni gruppi di anabattisti che volevano mettere tutto in comune e che poi finivano sempre per trovare qualcuno che rubacchiava nella cassa comune... Spesso chi più insiste sulle regole formali è il primo a violarle, come i farisei contro cui litigava Gesù. E questo non perché ci sia qualcosa di sbagliato nell'avere delle regole, ma perché quando queste diventano la ragione per cui si vive fanno crollare la fede e divorano chi le pratica facendogli praticare il contrario di quel che predicano.
  1.  
    1. Permette di vantarsi e di sentirsi a posto
Ultimo aspetto della fede esteriore: rassicura e dà importanza! Diciamocelo, la fede vera è difficile! Essere soli con Dio, soli profondamente davanti a Dio senza nessun appoggio che non sia lo Spirito Santo, apparentemente è difficile: è molto più comodo avvalersi di mediatori, di oggetti esteriori, di chiese riconosciute dallo stato, di simboli che hanno una tradizione nobile ed un rispetto generalizzato. E' molto più comodo. Ma non è fede! Perché la fede è quel che troviamo dopo essere passati dall'abisso del vuoto ed aver scoperto che non c'è altro che Dio che conta. Come possiamo dare valore ad un atto esteriore di qualsiasi tipo, sia la circoncisione, la partecipazione ad una riunione, un'azione presunta buona o altro, di fronte al puro incontro con Dio?
  1. Fede dentro nella croce
Paolo ci vuole fare andare al di là di una fede scadente ed esteriore. La fede vera deve superare ogni limite riduttivo, ogni presunto sostegno nell'esteriorità o nelle varie opere umane e farci capire che noi iniziamo a essere qualcosa dopo che ci siamo annullati sulla croce.
  1.  
    1. Crocifigge il mondo per i credenti ed i credenti per il mondo.
La fede nella croce di Cristo crocifigge il mondo per noi e noi per il mondo. Cosa significa? Significa che ci importa poco di quanto il mondo in cui viviamo riconosce, stima, apprezza o meno quello che crediamo. Perché è crocifisso, è vanificato sulla croce. Chi vive tra intellettuali è spesso portato a porsi il problema della plausibilità della propria fede, della credibilità di quanto predica, di quanto sia possibile rendere conto della propria fede da un punto di vista razionale e filosofico. E' un esercizio bello ed importante perché è giusto "rendere prigioniero di Cristo ogni pensiero" e perché è giusto che il messaggio sia portato ad ogni livello e ad ogni sfera della realtà. Tuttavia sarebbe triste che gli sforzi di rendere credibile il vangelo fossero fatti solo per non fare brutta figura davanti ad un mondo scettico e critico rispetto a tutto ciò che è soprannaturale. Quel mondo è semplicemente crocifisso per me. Ed io lo sono per lui, nel senso che non ho da rendere conto di niente ad un mondo a cui non appartengo: appartengo a Cristo ed a lui rendo conto della mia fede e di quello che credo.
E' un problema che influenza molti giovani credenti che lottano per difendere la loro fede sentendosi troppo diversi dai loro amici o messi da parte perché non seguono lo stesso stile di vita. Sarebbe molto comodo per loro limitarsi a mostrare qualche immagine, indossare qualche simbolo e osservare qualche pratica religiosa. Paolo invita ad andare al di là e a vivere la fede nell'annuncio e nella pratica, pensando che il mondo è crocifisso e che noi siamo crocifissi per lui.
  1.  
    1. Osserva tutto il mondo da un unico punto di vista: quello della nuova creazione
Se però ci limitassimo a dire che il mondo è crocifisso e che noi lo siamo per il mondo, avremmo un vangelo mutilato che sa solo quello che non conto, e quello che non deve fare. La parte più bella è la frase successiva che ci dice cosa significa veramente essere in Cristo: in Cristo non conta più niente! Non c'è un'azione da farsi o una da non farsi che possano avere valore, ma c'è solo la realtà di essere una nuova creatura! Nei vangeli si parla di "conversione" riprendendo un termine dell'Antico Testamento; in Giovanni si parla di "nuova nascita"; Paolo preferisce il termine: "essere una nuova creatura". Davanti a Dio non conta niente se non il fatto di tornare a Lui, di chiedere perdono, e di lasciare che Lui stesso rinnovi il nostro spirito. Siamo esseri marci, moralmente imperfetti e responsabilmente cattivelli, furbetti, o egoisti. Quella religione della formalità ci verrebbe molto naturale. Ma Dio ci invita ad essere nuove creature! Ci promette il suo stesso spirito capace di rinnovare la nostra mente, il nostro modo di sentire e di pensare. Ecco che allora non avremo più bisogno di piacere a qualcuno facendo azioni esteriormente piacevoli, o politically correct. Se siamo in Cristo siamo già stati accettati, perché abbiamo rinunciato a noi stessi ed al criterio di definizione richiesto dal mondo.

3. Benedizione.

Camminare così significa avere pace e creare pace attorno a sé, anche se c'è persecuzione. Così anche misericordia. Questa è rivolta al vero Israele, quello di Dio, cioè alla chiesa unita a quegli ebrei che hanno riconosciuto in Cristo il messia. Che la lettura di questo monumento della fede cristiana possa portarci grazia. AMEN

Galati 6, 6-10. Si raccoglie quello che si semina

6 Chi viene istruito nella dottrina, faccia parte di quanto possiede a chi lo istruisce. 7 Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. 8 Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. 9 E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo. 10 Poiché dunque ne abbiamo l'occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede.

La lettera di Paolo ai Galati volge al termine ed il linguaggio ricco e fitto di costruzioni complicate, lascia spazio a brevi punti con principi generali che riassumono i vari argomenti trattati. In questo ultimo passo, prima della vera e propria conclusione, Paolo enuncia un principio generale che declina in tre importanti ambiti della vita. Il principio è che l'uomo raccoglie quello che semina. I tre ambiti, potrei anticiparli con tre semplici termini: parola, spirito e azione.
Quello che l'uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Un principio che senza bisogno di grosse argomentazioni si impone per la forza della sua evidenza nell'esperienza sia di una civiltà contadina, che di una civiltà industriale: i contadini sanno bene che se seminano grano raccoglieranno grano; che se lo seminano di buona qualità lo raccoglieranno di buona qualità e viceversa. Noi, per cambiare contesto, sappiamo bene che se mettiamo nel motore una benzina sporca e di scarsa qualità lo roviniamo; come sappiamo che se mangiamo male, se seminiamo nel nostro corpo alimenti di bassa qualità, raccoglieremo malattie e debolezza. Questo è vero anche nello spirito: se seminiamo attorno a noi rabbia, litigi, ironia, malignità saremo ripagati con quelle. E che se seminiamo amore, gioia e pace, raccoglieremo amore gioia e pace. E' un fatto piuttosto evidente che non contrasta con la grazia di Dio, che ha la capacità di fertilizzare semine molto scadenti trasformandole in raccolti pessimi ed alberi marci in ottimi raccolti di frutta. Il fatto che Dio per grazia possa intervenire, e debba farlo, non cambia la ferrea necessità del principio, che vale comunque. Ed è un principio che vale in molti ambiti dei quali il nostro passo ne evidenzia tre.

1. Seminare nella parola.
Un primo punto su cui Paolo insiste è che chi è istruito nella parola deve fare parte di tutti i suoi beni a chi lo istruisce. Curioso che il verbo usato (koinoneito) è lessicalmente imparentato con il concetto di "comunione", a cui siamo soliti dare un valore spirituale molto pregnate. Paolo ci suggerisce dunque che un primo modo di "seminare" bene per raccogliere bene domani è quello di incoraggiare e sostenere la predicazione, l'insegnamento, quindi coloro che lo portano avanti. Non è un principio nuovo, né inderogabile e Paolo altrove precisa che lui stesso si è mantenuto ed ha lavorato per non essere di peso a nessuno (I Cor). Ma qui sottolinea l'importanza di contribuire all'insegnamento con i propri beni, che non sono necessariamente i soldi.
Per quanto questo principio non mi riguardi personalmente, perché non sono un predicatore pagato e mantenuto dalla mia comunità, ma ho il mio lavoro e gratuitamente svolgo il ministero di insegnamento nella mia chiesa, credo sia importante ribadire che l'insegnamento è una cosa molto importante e che perché vada avanti ci vuole la disponibilità da parte di chi riceve qualcosa a partecipare. Questo valorizza molto l'aspetto intellettuale, spirituale e concettuale della fede cristiana. Se è vero che questa non può esistere senza operare, senza agire e darsi da fare nel concreto, è vero anche che la fede è fatta anche di concetti, di parole, che strutturano la nostra visione del mondo, la nostra intelligenza ed il nostro modo di valutare la realtà. La fede cristiana non è un ortoprassi, cioè un credo in cui conta solo se si agisce male o bene, ma è un' misto di parole ed azioni che cooperano per il cambiamento radicale della vita umana e del mondo. Paolo invita i credenti a non sottovalutare l'importanza della parola contribuendo per come si può. Certo, Paolo lo dice all'inizio dell'era cristiana in un periodo in cui c'era bisogno di costruire, di formare un'intera chiesa che al tempo era fatta di poche persone molto deboli. Oggi, dopo venti secoli di storia cristiana durante i quali sono abbondati abusi di ogni tipo e durante i quali i rappresentanti della religione, il clero, le gerarchie, o anche brillanti predicatori televisivi hanno setacciato le tasche di tanti poveri fedeli, quando sentiamo dire una cosa del genere storciamo il naso... Ma il vero cristianesimo continua a seminare per la parola. Non va a sperperare in cose inutili, ma va a cercare canali in cui la parola viene predicata correttamente con un impatto forte sulla realtà circostante. E allora se seminiamo perché venga piantata la sana parola, raccoglieremo intorno a noi persone rinnovate da questa parola.

2. Seminare nello Spirito o nella carne.

Nel capitolo 5 di questa lettera Paolo ha dedicato una lunga sezione alla carne e allo Spirito, identificando nella prima l'egoismo umano con i suoi diversi peccati e nel secondo l'incontro con Dio e la liberazione dall'egoismo umano per rivolgersi a Dio e al prossimo. Alla conclusione dell'epistola Paolo non può non riprendere un tema tanto fecondo che deve far riflettere chiunque legge. L'immagine della semina è molto bella e ci aiuta a pensare la nostra vita secondo un'immagine, quella della semina, che non è scontata. Pensiamo un po' che veramente ogni cosa che facciamo è un seminare che avrà frutto. Pensiamo ai nostri figli: ogni parola che diciamo loro, un domani rispunterà, nel bene come nel male. Ogni critica che facciamo ad un amico, ad un fratello, condizionerà il raccolto della nostra amicizia, nel bene e nel male. Ogni azione che commettiamo, condizionerà il nostro rapporto con Dio, nel bene come nel male. Se siamo un po' realisti ci rendiamo tutti conto che i nostri raccolti non dovrebbero essere un gran ché... eppure il Signore spesso si dà delle grandi benedizioni! Stiamo attenti a non confondere i semi con i frutti: seminare nello spirito significa vivere nello Spirito. Se non conosciamo Dio e non lo abbiamo ancora incontrato, significa convertirsi e dare a Lui la propria vita. Se invece l'abbiamo incontrato e magari lo stiamo trascurando o mettendo da parte, significa tornare a Lui. E se lo serviamo fedelmente significa continuare a servirlo! Questo è seminare nello spirito e porterà i frutti di pace, di gioia, di benignità di cui la lettera parla al capitolo 5. Seminare nella carne significa invece voler vivere la propria vita autonomamente, come se Dio non ci fosse, a prescindere da quell'impronta che ha la sua forma che è dentro di ognuno di noi, e che quando manca lascia un vuoto terribile. Possiamo non sentirlo e rimuoverlo, ma c'è!
Seminare nello Spirito significa quindi raccogliere la vita eterna! Significa relativizzare la finitezza di questa vita, che Paolo chiama corruttibile, cioè che si corrompe, che non dura, per ereditare una vita che dura in eterno e che è vissuta in un'armonia perfetta con il Dio che ci ha creati. Seminare nella carne significa invece raccogliere la morte: significa avere qualche gioia fatta di alcool, di droga, di sesso, di divertimento, di violenza, di megalomania, di autonomia qui ed ora, ma niente dopo. Perché quindi non cogliere il meglio?

3. Seminare il bene.
Infine l'azione concreta: la fede, si diceva, è fatta di parole che danno un senso alla realtà. Se questo però non orientano anche un agire rimangono prive di senso e prive anche di realtà. L'incoraggiamento di Paolo è molto generale: "non stancatevi di fare il bene"... Di una generalità tuttavia che non ha niente di generico e che può essere facilmente precisata: fare il bene significa fare bene il proprio lavoro, non sfuggire al volto degli altri ma andargli incontro, aiutare chi ha bisogno, soccorrere chi sta male, dare da mangiare a chi ha fame, vestiti a chi ha freddo, istruzione cultura e mezzi di comunicazione a chi non ne ha, appoggio psicologico a chi è depresso... e potremmo aggiungerne tanti. Ma come vediamo Paolo non si concentra tanto sul dettagliare le diverse forse di "fare il bene", probabilmente perché in fondo c'è un qualcosa di intuitivo in questo bene. Il suo monito riguarda il non stancarsi di farne, perché è qui che vengono le difficoltà. Vuoi perché si comincia con grande entusiasmo, ma quando si si rende conto quanto faticoso e difficile sia fare veramente il bene, si lascia perdere. Vuoi perché spesso ci si dà un gran da fare, ma poi ci si annoia... sempre le stesse cose, oppure pochi frutti... Incoraggiamo persone che rimangono tristi; aiutiamo persone che spendono male i soldi e che continuano a spenderli male... Stiamo accanto a malati che poi magari vengono meno. Paolo ci incoraggi a vedere tutto dal punto di vista della raccolta! Non stanchiamoci perché prima o poi raccoglieremo. Potremmo anche applicarlo alla nostra ridotta realtà di chiesa: non stanchiamoci di incontrarci, di costruire, anche se ci conosciamo fin troppo bene e spesso non vediamo frutti, perché questi arriveranno! Il tempo di Dio non è il nostro, e neppure quello dell'agricoltura con stagioni fisse. Può essere più lungo o più corto. Ma ci sarà una raccolta.
Infine una coda: perché soprattutto verso i credenti? Sono forse privilegiati, o bisogna fare distinzioni tra uomini? Certo che no. Semplicemente Paolo suggerisce di cominciare da quelli che sono immediatamente vicini, cioè quelli che "abitano la casa della fede " (trad. letterale per indicare i credenti). Non ha senso andare a cercare di fare il bene a mille chilometri di distanza se in casa nostra c'è qualcuno che ne ha bisogno: si cominci da quello e poi si continui. E forse anche per un motivo pratico: se la casa di Dio funziona bene, è anche in grado di aiutare di più.

Siamo in campagna elettorale, e noi come credenti non abbiamo alcun partito prediletto. Tutti inventano degli slogan, ed io ne voglio creare uno perché dopo il voto politico si scelga per Gesù!
Partito Seminiamo parole, seminiamo nello Spirito, seminiamo il bene!

Galati 5,26-6,1-10. Ecclesioterapia

26 Cerchiamo di non essere vanagloriosi, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri. 1 Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che siete spirituali correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione. 2 Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo. 3 Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso. 4 Ciascuno esamini invece la propria condotta e allora solo in se stesso e non negli altri troverà motivo di vanto: 5 ciascuno infatti porterà il proprio fardello.

Un messaggio per la chiesa
Come in molte altre lettere di Paolo la parte conclusiva è ricca di consigli pratici, appropriati ad una comunità di fede come la chiesa. Chiesa, da intendersi come gruppo di persone che si conoscono e si frequentano assiduamente, e che hanno uno stile di vita simile a quello di una famiglia. Mi pare che questi consigli ci mostrino che la chiesa è un ambiente in cui è possibile innescare delle dinamiche virtuose: vivendo la chiesa nel modo giusto di contribuisce a fare di essa, tra le altre cose, anche una comunità terapeutica, cioè in grado di guarire, di aiutare chi è in difficoltà. Reciprocamente chi riceve aiuto restituisce a questa comunità le forze che lo hanno aiutato e a sua volta aiuta. Vediamo come!
1. Se abbiamo una giusta immagine di noi stessi...
Prima di dare consigli su quel che fare concretamente agli altri Paolo parte dalla persona e da quello che può e deve fare rispetto a se stessa: la Parola di Dio ci invita a "non essere vanagloriosi", cioè ad avere un sano concetto di noi stessi. In greco il termine indica una gloria "vuota", cioè priva di motivazioni reali. E' vanaglorioso chi ha di sé un'opinione più alta di quella che ha degli altri, chi pensa di sapere, capire, e sentire tutto, e quindi di poter consigliare, discutere, indirizzare su tutto. Non stiamo ovviamente parlando di ambiti tecnici o professionali: è ovvio che un medico pensi di saper di più del corpo umano di un fruttivendolo, e che un fotografo ne sa di più di come si scattano le fotografie di un dentista... Qui si parla della stima, considerazione e opinione che ognuno di noi ha nell'ambito di una chiesa, rispetto a quei frutti di cui Paolo ha appena finito di parlare nel capitolo 5: chi pensa di possedere tutti i frutti dello spirito e vede negli altri solo frutti della carne è vanaglorioso! E se detto così può sembrare un po' estremo nella pratica della vita di una chiesa la sensazione di essere un po' meno peggio degli altri, un po' più bravi e coerenti, un po' più impegnati è molto diffusa. La Parola di Dio attraverso le parole di Paolo ci invita invece ad un'immagine realistica, sobria, consapevole di un dato di fatto: siamo esseri umani peccatori e limitati, e riceviamo per grazia dei frutti in dono dallo Spirito. Non possiamo quindi vantarcene, perché non sono merito nostro. Una sana immagine di noi stessi non l'abbiamo guardandoci allo specchio. Pensiamo che lo specchio ci restituisca la nostra immagine fedele, mentre anche uno specchio inganna perché, a parte il fatto che ci rimanda solo l'esteriore, ribalta le immagini, quindi in qualche modo le falsa, ed è per questo che quando ci vediamo in una videocamera ci sentiamo diversi da come ci vediamo allo specchio. Una sana immagine di noi stessi la otteniamo solo cercando di inforcare gli occhiali della fede, osservando noi stessi con gli occhi di Dio. Come persone piene di qualità potenziali e di difetti evidenti che grazie a quella "crocifissione" di cui tanto si è parlato in questa epistola possono sentirsi esseri umani peccatori, ma rinnovati e perdonati da Dio. Questa è l'immagine che la fede propone per ogni uomo.
C'è un detto che dice che tutto parte dal cervello: grandi progetti, grandi crimini, azioni buone, tentazioni... Niente di più vero a questo riguardo per la nostra azione in chiesa: questa non dipende solo dalla qualità progetti che elaboriamo, dai comportamenti che ci sforziamo di adottare o dal carattere che abbiamo: dipendono da quello che pensiamo di noi stessi, che condiziona il modo in cui ci rapportiamo agli altri, nel bene e nel male.

2. Conseguenza dell'immagine che abbiamo di noi: competere e provocarsi oppure sostenersi?
Competere e provocarsi. Le chiese cono gruppi in cui si è chiamati ad esercitare i propri doni, collaborando così alla comune edificazione. Non sono cinema o teatri dove si va a fare gli spettatori, ma comunità viventi in cui ognuno ha un ruolo ed uno scopo. Tuttavia proprio questa partecipazione può scatenare la vanagloria di cui si diceva sopra, perché c'è sempre chi crede di fare più degli altri, meglio degli altri, o anche chi si sottovaluta e pensa di non poter fare niente. Da questi diversi tipi di vanagloria, che ormai chiamiamo immagine distorta di se stessi, derivano due atteggiamenti paralleli: se ci si sente superiori agli altri, ci si provoca, mettendosi in competizione, quasi che si dovessero fare gare di doni spirituali: chi predica meglio? Chi evangelizza di più? Chi è più capace di incoraggiare, di formare e di far crescere? Oppure, viceversa, se ci si sente inferiori, si comincia ad invidiare, ad essere gelosi di quello che gli altri fanno: di chi sa predicare, di chi ha un gran successo nell'annunciare il vangelo, e via dicendo.
Portare i pesi. A questo atteggiamento distruttivo Paolo oppone un principio cardine della vita di una chiesa: portare i pesi gli uni degli altri. Portare un peso è una pratica che non piace a nessuno, a parte gli sportivi che sono disposti a soffrire per allenarsi. E' stancante e faticoso, sia fisicamente che moralmente. E ci sono diverse strategie per evitare i pesi in cui siamo abili. Possiamo pensare che gli sbagli degli altri siano tali per cui è impossibile aiutarli. Peccano, in modo esagerato, quindi inutile aiutare. Oppure possiamo pensare di "valere qualcosa", qualcosa di più degli altri, per cui sia per noi una perdita di tempo cercare di correggere qualcuno che sbaglia, o che soffre.
Torna allora l'immagine sobria di cui dicevano sopra. L'immagine pulita di noi stessi ci ricorda che non siamo niente, e che siamo qualcosa se Dio ci fa essere qualcosa. Se un membro della comunità sbaglia, pecca, quindi ruba, insulta qualcuno, o fa qualsiasi altra cosa che la Parola di Dio etichetta come peccato debbono scattarci in mente tre pensieri:
  • il primo è che quanto è successo al fratello potrebbe essere successo anche a me, perché siamo uguali nella condizione di peccatori. E allora anziché condannare aiutiamo a portare il peso incoraggiando quella persona.
  • Ed il secondo pensiero è che proprio perché può capitare anche a me, a maggior ragione starò attento alla mia condotta. In questo senso la chiesa diventa veramente una comunità terapeutica di guarigione e di prevenzione, in cui non ci si giudica, non ci si dà addosso, ma ci si aiuta e si condividono i pesi. Ed oltre ai pesi della colpa di un errore commesso ci sono tanti altri pesi che dobbiamo portare insieme. E' imperativo che in una chiesa si sappia chi e perché sta soffrendo e chi gli si vada incontro; la persona ha la responsabilità di farlo sapere, ed il resto del corpo di prenderne atto.
  • Il terzo passo è di dirsi: sarò giudicato in base a se e come ho portato il peso dei miei fratelli. "Perché ciascuno poterà il proprio fardello"! E' una contraddizione rispetto a quanto detto sopra? No, i termini sono diversi: il primo riguarda l'enormità di pesi che un singolo non può portare. Il secondo invece riguarda quella responsabilità individuale dalla quale non possiamo esimerci, che ci riporta alla nostra posizione davanti a Dio.
La chiesa vive dunque delle immagini che ognuno di noi ha di se stesso: ci percepiamo come superiori agli altri, o come potenziale aiuto umile che favorisce la crescita di tutti e la prevenzione di sé?
Una breve aggiunta applicativa che riguarda più da vicino la nostra chiesa di Lucca.
La nostra immagine. Non siamo molti ed abbiamo spesso la sensazione che essendo in pochi abbiamo meno forze. Credo però che portare i pesi gli uni degli altri in un piccolo gruppo che si conosce sia più facile che non farlo in una mega chiesa di 1000 membri in cui ci sono tante energie, ma spesso non ci si conosce. Le grandi chiese probabilmente hanno un migliore impatto esterno, riusciranno a favorire il contesto sociale in cui vivono ed aiutare di più al di fuori; le piccole chiese hanno un vantaggio interno perché c'è maggiore confidenza. E' importante che impariamo a curare anche l'immagine che noi, collettivamente, abbiamo della nostra stessa chiesa. Che non pensiamo da un lato di essere migliori di altre chiese, più spirituali, più intelligenti o più sobri. Non lo siamo e siamo tutti ugualmente dipendenti dalla grazia.
Al contempo, cedo che sia importante non sottovalutarci. Non mi stancherò di ripetere che le grandi chiese sono nate dalle piccole, che il cristianesimo è nato da 12 persone e che anche in pochi si può fare molto. Il "siamo in pochi" è un ritornello che dobbiamo cancellare, sostituendolo con questo: Ciascuno porterà il proprio fardello, cioè a ciascuno verrà chiesto come ha impiegato il poco che aveva per fare tanti pochi che messi insieme fanno un tanto.
Infine, credo che sia importante per noi fare uno sforzo: crescere nella fiducia reciproca approfittando dei momenti di riunione. Durante la settimana ci incontriamo per delle riunioni di preghiera. Per quanto talvolta disattese, sono uno degli strumenti, non l'unico ma importante, in cui si possono portare i pesi insieme. E' lo spazio in cui chi ha pesi si può aprire e parlare. Ma è lo spazio in cui si può parlare anche di problemi e pesi di altri fratelli in altre chiese, e condividere il peso che questi hanno, come si è fatto ad esempio nel pregare per la chiesa perseguitata.
Stiamo dunque molto attenti a quello che pensiamo di noi stessi. Né troppo ritenendoci qualcosa, mentre abbiamo imparato che siamo niente. Ma questo niente è stato riempito dallo Spirito di Dio, quindi sottovalutare le potenzialità di una chiesa, significa svuotarla della sua vita. Con Dio possiamo!
 Stefano

Galati 5, 16-25: La carne e lo spirito
16 Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; 17
 la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
18 Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. 19 Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, 20 idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, 21 invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. 22 Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; 23
 contro queste cose non c'è legge.
24 Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri.25 Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.
Qualche settimana fa mi è stato chiesto di dare un'opinione in merito ad un opuscolo inventato dai grafici pubblicitari della mia scuola che aveva come titolo: "Peccati della carne" e che di fatto rappresentava una faccia con occhi, naso e bocca fatta di salsicce, hamburger, braciole ed altro. Era un volantino per pubblicizzare l'unione macellai di Lucca, e lo slogan era giocato proprio sul doppio senso di carne. Questo doppio senso non esisteva nel greco usato da Paolo, e con carne si intendeva semplicemente: condizione umana, fatto di essere un corpo costituito da razionalità e corpo terreni e sensibili. Prima di cominciare a commentare questo passo è opportuno fare questa precisazione, perché lo slogan che ho citato ed un certo uso del termine "carne", come dell'aggettivo "carnale" identificano genericamente questo termine con la sfera della sessualità. Questa non è esclusa certo dalla corporeità, ma sarebbe molto limitante identificarle. Paolo, parlando di carne ha quindi in mente qualcosa di più ampio: tutto l'uomo con la sua mente umana, limitata dalla sua cecità spirituale, e dalla sua razionalità potente ma anche limitante. L'uomo limitato dai suoi confini fisici e dalle sue pulsioni, che agiscono in lui in maniera fortissima. L'uomo quindi in quanto tale, fatto di una parte sensibile ed una immateriale, ma pur sempre limitate. La carne non è quindi una parte costitutiva dell'uomo, come potrebbe essere nel pensiero platonico, ma un orientamento umano della persona.
1. La lotta tra carne e spirito
Il passo si apre con un'esortazione: "camminate secondo lo Spirito". A cui segue la promessa che camminando per lo Spirito, cioè sotto la guida dello Spirito di Dio, non saremo portati a soddisfare quei desideri che hanno tutti gli umani e che caratterizzano la condizione umana, che verranno a breve elencati. Ora, un'esortazione, "camminate", implica che c'è una volontà da esercitare, una lotta da fare contro qualcosa che la volontà deve vincere. Il motivo per cui Paolo inizia con un'esortazione è spiegato di seguito: chi ha ascoltato l'evangelo ed ha creduto è entrato in una nuova vita, caratterizzata appunto dalla presenza dello Spirito. Convertirsi significa ricevere lo Spirito Santo nella propria vita e sperimentare un rinnovamento interiore che smorza i desideri della condizione umana. Questa tuttavia non è cancellata e l'uomo rimane continuamente conteso tra questi due poli: lo Spirito che lo porta verso la libertà e verso Dio, la carne che lo vorrebbe riportare in schiavitù, limitandolo ai confini ridotti della sensibilità. Il punto da capire è il seguente: che ruolo ha l'uomo in questa lotta tra carne e spirito? Ha delle responsabilità o è semplicemente in preda a due cavalli che lo tirano in direzioni opposte? Frasi come il v. 17 "la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda: sicché voi non fate quello che vorreste", farebbe quasi pensare ad una deresponsabilizzazione dell'uomo, preso quasi in una morsa. In Romani 7 lo stesso concetto è espresso, ed è quello della condizione di un uomo che fa quello che non vuole e quello che vuole non lo fa. Prima di dare una risposta guardiamoci intorno. Mi pare che la contraddittorietà dell'essere umano sia un dato di fatto. Anche nel nostro tempo in cui ci pare di essere molto liberi e di esserci affrancati da mille barriere ci rendiamo conto che in realtà pochissimi agiscono in modo veramente libero e che una serie di motivazioni "carnali" guidano le scelte delle masse: la paura, l'interesse, il desiderio di successo immediato, la soddisfazione, l'illusione di un po' di calma, l'obbedienza a certi riti... Ad esempio in questi giorni di festività natalizie vediamo milioni di persone riversarsi nelle strade a comprare compulsivamente regali per più gente possibile, salvo poi affermare che sono stressati e che avrebbero preferito non fare niente. Oppure, per fare un esempio ancora più banale, si può pensare a quante persone vorrebbero smettere di fumare e non ci riescono; o, sempre per fare un riferimento alle feste, a mangiare di meno, ma anche qui non riescono, perché la gola vince...
Il pensiero di Paolo quindi è molto attuale e incontra pienamente quella grossa massa di persone che si sentono e sono deboli, che vorrebbero cambiare, ma non ci riescono, che si sentono schiacciati dal peso della loro stessa umanità. Paolo ci invita oggi a non sentirci dei mostri se non riusciamo ad avere una vita perfetta e santa come vorremmo! Ma non sta affermando che l'uomo non abbia responsabilità nella lotta carne/spirito, al contrario! Comincia con l'esortazione di camminare per lo Spirito, ma poi sottolinea che la potenza della carne è enorme! La psicanalisi freudiana ha parlato di pulsioni inconsce, e forse in questo ha dato un utile contributo alla comprensione del fatto umano: l'uomo è abitato da forse che lo sorpassano e lo sovrastano, e spesso soccombe... Ma questa illustrazione della potenza della condizione umana, della corporeità e dei suoi limiti è incorniciata da queste due esortazioni: camminate secondo lo Spirito e: 18 Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge". C'è quindi molto spazio per la responsabilità che ha ogni credente nello sfuggire alle pulsioni, alla potenza della carne che tende a schiacciarlo e ad imprigionarlo, ed è costituita da questi due atti:
  • camminare secondo lo Spirito per vincere il desiderio
  • Lasciarsi guidare dallo Spirito per vincere la condanna della Legge.
Paolo non invita a fare sforzi, ma a cambiare prospettiva. Gesù disse che i mali di questo mondo non vengono da quello che entra nel corpo, ma da quello che esce dal cuore. E quello che esce dal cuore, non esce dal corpo. Tutto parte dai pensieri che facciamo, o da come assecondiamo e lasciamo crescere pulsioni di vario tipo: di vendetta, di collera, di sessualità, di invidia... Prima ancora di fare un lungo elenco Paolo ci rassicura: vincere tutto quello che descriverà è possibile: camminando secondo lo Spirito e lasciandosi guidare dallo Spirito. Facendo quindi prevenzione spirituale sulle nostre vite, e ricercando l'incontro con lo Spirito di Dio in ogni istante della vita.
2. Un po' di concretezza.
Per evitare di essere fraintesi la cosa migliore è dare degli esempi. E Paolo ne fornisce una lista che lui stesso definisce non completa, ma che è comunque chiara. Più che descrivere ogni singola opera della carne, credo sia interessante raggrupparle per vedere quali ambiti riguardano:
  1. Fornicazione, impurità, libertinaggio. Queste opere riguardano il sesso, ed il suo uso scollegato dall'amore: relazioni che non rientrano nel matrimonio, plurime o individuali, e comunque sia un uso del sesso che prende in considerazione solo il mero dato corporeo senza inserirlo in un percorso relazionale tra chi lo pratica. E' una perversione dell'amore e rende schiavi, non liberi di amare veramente.
  2. Idolatria, stregoneria (o magia). E' il regno dell'occulto e della falsa divinità, e perverte il corretto rapporto con Dio. Cerca la potenza e la forza del cambiamento della realtà, sia come invocazione, che come pratica, non nel Dio onnipotente e creatore ma in altre entità, che ugualmente rendono schiavi e chiedono qualcosa in cambio.
  3. inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie. Riguarda la vita in società, e pervertono i rapporti tra uomini. Queste opere della carne sono quelle che rendono la nostra società quello che è, povera di valori, poco solidale e guidata dall'interesse.
  4. Ubriachezze e orge. Queste riguardano infine il cibo, ed un rapporto degradato con un qualcosa che serve come sostentamento, volendo anche come contributo alla convivialità e alla gioia comune, ma che rischia di pervertirsi per degradare l'uomo, riducendolo alla sua pancia o a fargli perdere il controllo.
Colpisce che ognuna di queste opere della carne ha la caratteristica di degradare e pervertire un rapporto che potrebbe invece essere ricco, umanizzante ed edificante. E colpisce anche il monito duro di Paolo: persistere in queste opere, praticarle nella continuità (rileviamo che in greco il "fanno" è un participio presente, che ha un valore di duratività) significa non ereditare il regno di Dio! I credenti che si dicono tali ma non vogliono deliberatamente abbandonare queste opere non si illudano! Non parliamo di quei credenti che sbagliano, cadono, vorrebbero ma non riescono, ma comunque lottano e si sforzano di liberarsi dalla schiavitù in cui queste opere li relegano. Parliamo di chi, dicendosi credente, vive piacevolmente secondo questo stile carnale.
A queste si oppongono i frutti dello Spirito che potrebbero essere riassunti nell'unico frutto: l'amore, di cui ugualmente vediamo una serie di sotto-frutti: è forse possibile anche qui vedere l'amore come una serie di caratteristiche che vanno verso l'altro: gioia, benevolenza, bontà, fedeltà, sommate ad un'altra serie che invece accoglie l'altro: pace, pazienza, mitezza, dominio di sé, anche in risposta ad eventuali attacchi, provocazioni o torti. Ed in fondo l'amore si potrebbe proprio riassumere in questo: fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, per quel che riguarda il primo gruppo; e porgi l'altra guancia per il secondo. Non c'è legge che regga contro queste cose, nel senso che tornando al problema della giustificazione, chi agisce in nome dell'amore, con quella fede operante per mezzo dell'amore di cui abbiamo detto, sta mostrando di avere dentro di sé la vera fede, e di essersi sottratto dal giudizio della legge.
3. Crocifissione e cammino.
La frase finale è un efficace riassunto con due immagini molto belle di quanto detto. La vita cristiana si riassume in due azioni molto semplici, ma estremamente profonde e dense: capire fino in fondo la portata della crocifissione. Dire che Cristo è morto per noi significa dire che quella serie di opere che abbiamo descritto, che spesso avvinghiano anche i credenti, non hanno l'ultima parola, perché sulla croce hanno perso. Sulla croce sono inchiodate, nel senso che la gioia del perdono che chi le ha commesse riceve, è più grande della voglia di continuare a praticarle.
Parallelamente la vita è cammino: non è solo sosta di riflessione per lavare le proprie sporcizie, ma cammino, slancio verso la vita grazie allo Spirito per prodigare quei frutti dello Spirito che abbiamo visto. Alziamoci la mattina rileggendoci la lista in cui si declina l'amore: prendiamoci il proposito di camminare ogni giorno secondo uno di quei frutti specifici. Stiamo attenti perché non si tratta di virtù naturali che fanno o non fanno parte del carattere. Si tratta di frutti dello Spirito che sono pronti e a disposizione di chi accetta di viverli e di riceverli dalla guida dello Spirito. La gioia è un frutto e va coltivato, non è l'euforia; la pace non è la passività, o l'assenza di guerra, ma è l'impegno per la pace e il diffondere pace; la pazienza non è la sopportazione, ma il sapere vedere Cristo in chi non si sopporta; la benevolenza non è il soldo dato per pulirsi la coscienza, ma il mettere l'altro prima di noi; la fedeltà non è l'attaccamento motivato da paura o da abitudine, ma una scelta che prescinde dalle circostanze; la mitezza, non è la dabbenaggine, ma la calma che viene dalla fiducia nell'assoluta sovranità di Dio sulla realtà; l'autocontrollo non è il frutto di pratiche zen, o di ginnastiche autoconvincenti, ma il frutto del lavoro dello spirito nei caratteri collerici.
Camminiamo e viviamo nello Spirito.