mercoledì 13 febbraio 2013


Galati 5,26-6,1-10. Ecclesioterapia

26 Cerchiamo di non essere vanagloriosi, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri. 1 Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che siete spirituali correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione. 2 Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo. 3 Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso. 4 Ciascuno esamini invece la propria condotta e allora solo in se stesso e non negli altri troverà motivo di vanto: 5 ciascuno infatti porterà il proprio fardello.

Un messaggio per la chiesa
Come in molte altre lettere di Paolo la parte conclusiva è ricca di consigli pratici, appropriati ad una comunità di fede come la chiesa. Chiesa, da intendersi come gruppo di persone che si conoscono e si frequentano assiduamente, e che hanno uno stile di vita simile a quello di una famiglia. Mi pare che questi consigli ci mostrino che la chiesa è un ambiente in cui è possibile innescare delle dinamiche virtuose: vivendo la chiesa nel modo giusto di contribuisce a fare di essa, tra le altre cose, anche una comunità terapeutica, cioè in grado di guarire, di aiutare chi è in difficoltà. Reciprocamente chi riceve aiuto restituisce a questa comunità le forze che lo hanno aiutato e a sua volta aiuta. Vediamo come!
1. Se abbiamo una giusta immagine di noi stessi...
Prima di dare consigli su quel che fare concretamente agli altri Paolo parte dalla persona e da quello che può e deve fare rispetto a se stessa: la Parola di Dio ci invita a "non essere vanagloriosi", cioè ad avere un sano concetto di noi stessi. In greco il termine indica una gloria "vuota", cioè priva di motivazioni reali. E' vanaglorioso chi ha di sé un'opinione più alta di quella che ha degli altri, chi pensa di sapere, capire, e sentire tutto, e quindi di poter consigliare, discutere, indirizzare su tutto. Non stiamo ovviamente parlando di ambiti tecnici o professionali: è ovvio che un medico pensi di saper di più del corpo umano di un fruttivendolo, e che un fotografo ne sa di più di come si scattano le fotografie di un dentista... Qui si parla della stima, considerazione e opinione che ognuno di noi ha nell'ambito di una chiesa, rispetto a quei frutti di cui Paolo ha appena finito di parlare nel capitolo 5: chi pensa di possedere tutti i frutti dello spirito e vede negli altri solo frutti della carne è vanaglorioso! E se detto così può sembrare un po' estremo nella pratica della vita di una chiesa la sensazione di essere un po' meno peggio degli altri, un po' più bravi e coerenti, un po' più impegnati è molto diffusa. La Parola di Dio attraverso le parole di Paolo ci invita invece ad un'immagine realistica, sobria, consapevole di un dato di fatto: siamo esseri umani peccatori e limitati, e riceviamo per grazia dei frutti in dono dallo Spirito. Non possiamo quindi vantarcene, perché non sono merito nostro. Una sana immagine di noi stessi non l'abbiamo guardandoci allo specchio. Pensiamo che lo specchio ci restituisca la nostra immagine fedele, mentre anche uno specchio inganna perché, a parte il fatto che ci rimanda solo l'esteriore, ribalta le immagini, quindi in qualche modo le falsa, ed è per questo che quando ci vediamo in una videocamera ci sentiamo diversi da come ci vediamo allo specchio. Una sana immagine di noi stessi la otteniamo solo cercando di inforcare gli occhiali della fede, osservando noi stessi con gli occhi di Dio. Come persone piene di qualità potenziali e di difetti evidenti che grazie a quella "crocifissione" di cui tanto si è parlato in questa epistola possono sentirsi esseri umani peccatori, ma rinnovati e perdonati da Dio. Questa è l'immagine che la fede propone per ogni uomo.
C'è un detto che dice che tutto parte dal cervello: grandi progetti, grandi crimini, azioni buone, tentazioni... Niente di più vero a questo riguardo per la nostra azione in chiesa: questa non dipende solo dalla qualità progetti che elaboriamo, dai comportamenti che ci sforziamo di adottare o dal carattere che abbiamo: dipendono da quello che pensiamo di noi stessi, che condiziona il modo in cui ci rapportiamo agli altri, nel bene e nel male.

2. Conseguenza dell'immagine che abbiamo di noi: competere e provocarsi oppure sostenersi?
Competere e provocarsi. Le chiese cono gruppi in cui si è chiamati ad esercitare i propri doni, collaborando così alla comune edificazione. Non sono cinema o teatri dove si va a fare gli spettatori, ma comunità viventi in cui ognuno ha un ruolo ed uno scopo. Tuttavia proprio questa partecipazione può scatenare la vanagloria di cui si diceva sopra, perché c'è sempre chi crede di fare più degli altri, meglio degli altri, o anche chi si sottovaluta e pensa di non poter fare niente. Da questi diversi tipi di vanagloria, che ormai chiamiamo immagine distorta di se stessi, derivano due atteggiamenti paralleli: se ci si sente superiori agli altri, ci si provoca, mettendosi in competizione, quasi che si dovessero fare gare di doni spirituali: chi predica meglio? Chi evangelizza di più? Chi è più capace di incoraggiare, di formare e di far crescere? Oppure, viceversa, se ci si sente inferiori, si comincia ad invidiare, ad essere gelosi di quello che gli altri fanno: di chi sa predicare, di chi ha un gran successo nell'annunciare il vangelo, e via dicendo.
Portare i pesi. A questo atteggiamento distruttivo Paolo oppone un principio cardine della vita di una chiesa: portare i pesi gli uni degli altri. Portare un peso è una pratica che non piace a nessuno, a parte gli sportivi che sono disposti a soffrire per allenarsi. E' stancante e faticoso, sia fisicamente che moralmente. E ci sono diverse strategie per evitare i pesi in cui siamo abili. Possiamo pensare che gli sbagli degli altri siano tali per cui è impossibile aiutarli. Peccano, in modo esagerato, quindi inutile aiutare. Oppure possiamo pensare di "valere qualcosa", qualcosa di più degli altri, per cui sia per noi una perdita di tempo cercare di correggere qualcuno che sbaglia, o che soffre.
Torna allora l'immagine sobria di cui dicevano sopra. L'immagine pulita di noi stessi ci ricorda che non siamo niente, e che siamo qualcosa se Dio ci fa essere qualcosa. Se un membro della comunità sbaglia, pecca, quindi ruba, insulta qualcuno, o fa qualsiasi altra cosa che la Parola di Dio etichetta come peccato debbono scattarci in mente tre pensieri:
  • il primo è che quanto è successo al fratello potrebbe essere successo anche a me, perché siamo uguali nella condizione di peccatori. E allora anziché condannare aiutiamo a portare il peso incoraggiando quella persona.
  • Ed il secondo pensiero è che proprio perché può capitare anche a me, a maggior ragione starò attento alla mia condotta. In questo senso la chiesa diventa veramente una comunità terapeutica di guarigione e di prevenzione, in cui non ci si giudica, non ci si dà addosso, ma ci si aiuta e si condividono i pesi. Ed oltre ai pesi della colpa di un errore commesso ci sono tanti altri pesi che dobbiamo portare insieme. E' imperativo che in una chiesa si sappia chi e perché sta soffrendo e chi gli si vada incontro; la persona ha la responsabilità di farlo sapere, ed il resto del corpo di prenderne atto.
  • Il terzo passo è di dirsi: sarò giudicato in base a se e come ho portato il peso dei miei fratelli. "Perché ciascuno poterà il proprio fardello"! E' una contraddizione rispetto a quanto detto sopra? No, i termini sono diversi: il primo riguarda l'enormità di pesi che un singolo non può portare. Il secondo invece riguarda quella responsabilità individuale dalla quale non possiamo esimerci, che ci riporta alla nostra posizione davanti a Dio.
La chiesa vive dunque delle immagini che ognuno di noi ha di se stesso: ci percepiamo come superiori agli altri, o come potenziale aiuto umile che favorisce la crescita di tutti e la prevenzione di sé?
Una breve aggiunta applicativa che riguarda più da vicino la nostra chiesa di Lucca.
La nostra immagine. Non siamo molti ed abbiamo spesso la sensazione che essendo in pochi abbiamo meno forze. Credo però che portare i pesi gli uni degli altri in un piccolo gruppo che si conosce sia più facile che non farlo in una mega chiesa di 1000 membri in cui ci sono tante energie, ma spesso non ci si conosce. Le grandi chiese probabilmente hanno un migliore impatto esterno, riusciranno a favorire il contesto sociale in cui vivono ed aiutare di più al di fuori; le piccole chiese hanno un vantaggio interno perché c'è maggiore confidenza. E' importante che impariamo a curare anche l'immagine che noi, collettivamente, abbiamo della nostra stessa chiesa. Che non pensiamo da un lato di essere migliori di altre chiese, più spirituali, più intelligenti o più sobri. Non lo siamo e siamo tutti ugualmente dipendenti dalla grazia.
Al contempo, cedo che sia importante non sottovalutarci. Non mi stancherò di ripetere che le grandi chiese sono nate dalle piccole, che il cristianesimo è nato da 12 persone e che anche in pochi si può fare molto. Il "siamo in pochi" è un ritornello che dobbiamo cancellare, sostituendolo con questo: Ciascuno porterà il proprio fardello, cioè a ciascuno verrà chiesto come ha impiegato il poco che aveva per fare tanti pochi che messi insieme fanno un tanto.
Infine, credo che sia importante per noi fare uno sforzo: crescere nella fiducia reciproca approfittando dei momenti di riunione. Durante la settimana ci incontriamo per delle riunioni di preghiera. Per quanto talvolta disattese, sono uno degli strumenti, non l'unico ma importante, in cui si possono portare i pesi insieme. E' lo spazio in cui chi ha pesi si può aprire e parlare. Ma è lo spazio in cui si può parlare anche di problemi e pesi di altri fratelli in altre chiese, e condividere il peso che questi hanno, come si è fatto ad esempio nel pregare per la chiesa perseguitata.
Stiamo dunque molto attenti a quello che pensiamo di noi stessi. Né troppo ritenendoci qualcosa, mentre abbiamo imparato che siamo niente. Ma questo niente è stato riempito dallo Spirito di Dio, quindi sottovalutare le potenzialità di una chiesa, significa svuotarla della sua vita. Con Dio possiamo!
 Stefano

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