venerdì 17 gennaio 2014


La costituzione di Dio - Esodo 20.

12 gennaio 2014 alle ore 21.35
I dieci comandamenti
Siamo davanti ad un testo che nella cultura occidentale è diventato estremamente conosciuto: chi non conosce i dieci comandamenti? E’ interessante che li troviamo proprio nel bel mezzo di un racconto, come per dire che la legge divina non è mai lontana dalla vita del popolo a cui è data. I nostri codici giuridici, non sono in genere iscritti in dei racconti, e non a caso sono fatti e letti da tecnici specializzati, mentre questi comandamenti, che sono una specie di costituzione, di carta fondamentale di quel che Dio chiede agli uomini, si collocano in mezzo ad un racconto di liberazione e cammino nel deserto. Per il popolo di Israele questi comandamenti erano lo strumento per mantenere la libertà ottenuta, e per capire la volontà di Dio. Per noi, il loro senso non cambia, e seppure sappiamo di essere salvati incondizionatamente dalla fede in queste dieci parole troviamo una guida sempre attuale, ed applicabile indistintamente in ogni epoca.
Esaminiamo oggi i primi quattro comandamenti che riguardano Dio.
  1. 1.      Io sono il Signore Iddio tuo…
 Dio si presenta con il suo nome e salta subito agli occhi che la prima caratteristica che Dio dà di sé è che è: “Iddio tuo”, fondando quindi un senso di appartenenza, una relazione a tu per tu. Continua ricordando che è proprio quel Dio che ha liberato dalla schiavitù. Dio avrebbe potuto cominciare a descriversi come creatore, o come onnipotente, enumerando quindi delle sue qualità generali come quelle che troviamo nei libri di teologia sistematica. Invece preferisce ancorarsi nella concretezza della vita e rivelarsi in primo luogo come Dio nostro e liberatore. In virtù di questo vieta che esistano altri dei all’infuori di lui. Israele vive in un contesto in cui ci sono altre religioni e la tentazioni di cercare altre divinità c’è. Ma sono divinità che non liberano, e che non impostano con la persona un rapporto diretto e personale. Semplicemente perché “non sono”.
Questa stessa parola si rivolge a noi oggi. Dio è qualcuno che cerca con noi un rapporto personale in modo tale che ognuno di noi possa dire che Dio è mio, e che si riconosca in una relazione in cui Dio dice: “io sono l’Iddio tuo”. Ed è un Dio che ci ha liberati. Potremmo elencare numerosi padroni spirituali dai quali Dio ci ha liberato, che possono andare dalla droga, all’alcol, al carattere, ad una vita priva di senso, dalla tristezza o ancora dalla disperazione. Ma in primo luogo Dio ci ha liberati da noi stessi, dall’idea di voler far dipendere la nostra vita da noi, o da altre divinità fatte di nostre soddisfazioni, giochi, hobbies, famiglia, lavoro, ecc. Assolutizzare ognuno di questi “dei” ci rovina, perché niente è degno di prendere il posto di Dio. Il vuoto che è dentro di noi e che ha forma di Dio, può essere riempito solo da Dio.
E’ vero però che molti di noi di questa liberazione hanno abusato, e contenti di essere liberati da Dio si illudono di essere liberi da Dio stesso. Dio libera, ma per renderci suoi servitori. Non perché sia un sovrano che ha bisogno di sudditi, ma semplicemente perché la nostra realizzazione avviene nel momento in cui accettiamo pienamente la nostra creaturalità rispetto ad un creatore. Siamo creature di Dio, e possiamo diventare figli di Dio. Ma questo implica dei doveri, delle responsabilità. Non siamo liberi di non lodare… Non siamo liberi di non amare… Non siamo liberi di non servire… Perché Dio ci ha liberati proprio da una vita che era negazione di servizio, lode ed amore. Meditiamo quindi quotidianamente il senso della libertà ricevuta, per non cadere sotto nuovi padroni.
  1. 2.      Non ti farai statua alcuna…
A differenza della religioni che stavano intorno ad Israele, Dio proibisce di farsi delle immagini, delle statue e degli idoli che lo rappresentino. Questo in parte sottolinea nuovamente la condanna dell’idolatria, in parte ci dice molto sulla natura di Dio: rappresentare Dio significa negare sia la sua trascendenza che la sua vicinanza. Dio “trascende” il mondo, cioè è al di là delle cose che vediamo, è più grande e di natura diversa di ognuna di esse. Non deve quindi essere ridotto a queste, altrimenti viene distorto, falsato. Rappresentandolo, anziché averne un’immagine più chiara, lo riduciamo e lo fraintendiamo. Questo distrugge anche la sua vicinanza, cioè il modo in cui si relaziona con il popolo. Molti salmi mettono in guardia il popolo dalle statue che non sentono, non vedono, non hanno sentimenti, mentre Jahaveh ce li ha, perché non è un idolo inanimato.
Il ricorso ad immagini è molto frequente in diverse religioni, anche rientranti nel cristianesimo, ma i comandamenti sono molto categorici: né con statue, né con crocifissi, è giusto rappresentare Dio perché lo si limita. Nelle chiese evangeliche in genere questo messaggio relativo alle statue è ben compreso, ma sarebbe un errore fermarsi qui. Credo che sia un’idolatria qualunque forma di limitazione della trascendenza di Dio. Molte chiese infatti, seppure senza immagini e statue, si trasformano nella norma assoluta che stabilisce come è fatto Dio, finendo per affermare un possesso della verità molto vicino all’idolatria. La verità si identifica allora con quella specifica chiesa (è quanto afferma anche il cattolicesimo nel suo credo) e nuovamente viene ridotta e limitata. E’ nostro compito vivere la fede, e ricercare Dio, cercando di non imporre a nessuno altro che la Scrittura – che non è statica – che fornisce la giusta immagine di Dio.
  1. 3.      Non pronunciare il nome dell’Eterno invano…
Il recente dibattito sulla possibilità di dare ai figli il cognome della mamma ci fa vedere che ancora oggi il nome è un qualcosa di molto importante, a cui si tiene e che in qualche modo porta con sé le caratteristiche della persona. Abbiamo già commentato che Jahveh ha questo nome ricco, che indica l’essere, l’eternità, la non riducibilità ed altro. E ricordiamo anche che nell’esodo Dio ha molto volte affermato che tutta la terra avrebbe dovuto conoscere il suo nome.  Usare il nome di Dio invano significa rovinare la sua reputazione, associarlo a pratiche per cui chi sente parlare di Dio se ne allontana. Ma cosa significa usare invano? In che modo gli israeliti avrebbero potuto usare il nome di Dio invano?  Gli ambiti di applicazione sono numerosi. Certamente la falsa profezia, fatta nel nome di Dio, è un uso vano. Così lo è chiamare Dio in causa per i propri interessi. Pensiamo a tanti partiti politici che prendono in prestito il nome di Dio, oppure si dichiarano vicini alla chiesa, raccontano le loro pratiche religiose per catturare voti; sono tutti usi peggio che vani, strumentali del nome di Dio. Certamente possiamo far rientrare le frequenti bestemmie che sentiamo, che invocano Dio spesso ormai quasi inconsapevolmente, per offenderlo. Credo tuttavia che ci sia di peggio. Quando le chiese perdono di vista i loro veri obiettivi, quando smettono di lodare e di onorare il nome di Dio e finiscono per proporre dei riti vuoti, delle funzioni sterili, che su Dio non comunicano niente, quando scivolano nella religiosità perdendo la spiritualità, ecco che il nome di Dio è usato invano. Se al culto non preghiamo sentendo qualcosa di forte per Dio, stiamo usando invano il suo nome.
  1. 4.      Ricordati del giorno del Signore per santificarlo.
A chi di noi capita di scordare che un certo giorno è domenica? Ci capita quando siamo in vacanza e sentendoci liberi perdiamo la cognizione del tempo. Ma durante la settimana è difficile scordare che siamo durante il giorno in cui finalmente non si lavora e ci si riposa – fa eccezione chi per motivi imprescindibili deve lavorare di domenica. Forse per gli ebrei nel deserto, che vivevano in una società meno strutturata, e secondo le circostanze anche metereologiche, era meno scontato che un certo giorno non si lavorasse: se ha piovuto per 10 giorni e di sabato c’è il solo, come si fa a non riprendere il lavoro di allevamento o coltivazione proprio in quel giorno? Ecco perché c’è un esortazione al ricordo del giorno. Ma c’è di più: il lavoro sfrenato disumanizza, ieri come oggi. Lavorare e basta finisce per alienarci, e renderci schiavi, facendoci perdere di vista sia il nostro rapporto con Dio che quello con gli altri. Ecco allora il giorno del sabato che è una specie di “santuario nel tempo”, che ci permette di prendere del tempo per noi e per Dio.
Purtroppo la nostra società ha colto la forma di questo comandamento, ma ne ha rinnegato la sostanza. Nei contratti di lavoro è in genere previsto un giorno di pausa, sebbene ultimamente si tenda sempre di più a spingere per il lavoro domenicale, con apertura di negozi, supermercati ed altro. Ci garantiamo quindi un giorno di riposo, ma non sempre facciamo di questo riposo “lo shabbat di Dio”. Mi colpì un giorno l’osservazione di una sorella olandese che mi disse che nella loro chiesa incoraggiavano a passare la domenica pomeriggio, dopo il culto e l’adorazione, a studiare la parola, ad approfondire qualche tema. E’ vero che per molti di noi la domenica diventa l’unico momento libero della settimana ed in questa si coltivano un po’ tutte le relazioni sociali, familiari e di chiesa. Credo che da un lato dobbiamo veramente fare attenzione a che ogni domenica sia veramente un momento sia di vero riposo, che di vera consacrazione al Signore.

Dove abita Dio?

Luoghi di culto Aggeo 2: 3-9  (per leggere Aggeo capitolo 2 clicca qui:http://www.laparola.net/testo.php?versioni[]=C.E.I.&riferimento=Aggeo2)
Per la prima volta ci riuniamo oggi in questa casa che per qualche anno sarà il nostro luogo di culto. La concezione che abbiamo oggi di “luogo di culto” è molto diversa da quella che ne avevano nell’Antico Testamento, e le parole di Gesù prima e degli apostoli poi insegnano chiaramente che Dio non abita in templi fatti dalle mani degli uomini, e che il vero tempio sono le persone. Tuttavia una lettura di un antico profeta come Aggeo che parla del tempio del Signore, quindi del luogo in cui materialmente Dio aveva scelto di essere rappresentato sulla terra, mi pare opportuna per cominciare questo anno nuovo in un luogo nuovo. Saltiamo il capitolo primo del libro nel quale il profeta riprende aspramente il popolo per il suo individualismo:  scarsa disponibilità a fornire i materiali per il tempio ma grande cura per le loro case. Nel secondo capitolo dalla riprensione si passa all’incoraggiamento.  
1. Coraggio: 4 Ora, coraggio, Zorobabele - oracolo del Signore - coraggio, Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese, dice il Signore, e al lavoro, perché io sono con voioracolo del Signore degli eserciti -5 secondo la parola dell'alleanza che ho stipulato con voi quando siete usciti dall'Egitto; il mio spirito sarà con voi, non temete.
Dio, dopo aver ripreso ed accusato il popolo per bocca di Aggeo lo rassicura. La perfetta mescolanza di esortazione diretta all’azione, con la garanzia della presenza divina fanno di questo passo una delle parole più incoraggianti e rinvigorenti dell’Antico Testamento. Sono una sorta di energetico, antidepressivo e ricostituente che dovremmo leggere ogni volta che dobbiamo intraprendere un lavoro, che iniziamo qualcosa di nuovo o che, semplicemente, siamo scoraggiati. Il Signore ci dice: coraggio! Non mollare! Altri traducono: “sii forte!”. E poi: mettiti al lavoro. La fede non è solo un ricevere da Dio garanzie e certezze sulla sua esistenza, ma anche un agire. Un mettersi al lavoro, in questo caso per la gloria di Dio, per un tempio, per un luogo che lo rappresenti sulla terra. Anche se non crediamo certo che Dio sia qui tra queste quattro mura, siamo convinti che queste sono funzionali al suo regno. Crediamo che queste ci serviranno per dargli gloria, ed allora è importante che ognuno di noi prenda seriamente a cuore questo posto. Che contribuisca, che dia, che pulisca, si impegni, faccia di tutto perché questo luogo possa essere utile all’opera del Signore.
 2. Dio e lo splendore: arte, bellezza e beni per la gloria di DioAncora un po' di tempo e io scuoterò il cielo e la terra, il mare e la terraferma. 7 Scuoterò tutte le nazioni e affluiranno le ricchezze di tutte le genti e io riempirò questa casa della mia gloria, dice il Signore degli eserciti. 8 L'argento è mio e mio è l'oro, dice il Signore degli eserciti. 9 La gloria futura di questa casa sarà più grande di quella di una volta, dice il Signore degli eserciti
La profezia dice che il Signore scuoterà la terra. Non credo si tratti di un scossa di terremoto, ma piuttosto di una scossa morale, di una scossa che deriva dalla predicazione della parola di Dio. Da questa scossa verrà fuori che le ricchezze affluiranno verso la casa di Dio. Ora, noi non diamo valore speciale alle cose materiali ma è importante capire che nella Bibbia la materialità non è mai disprezzata o screditata a favore della spiritualità. Materiale e spirituale, spirito e corpo, si compenetrano e si completano. Se i templi fatti dagli uomini perdono ogni benedizione e privilegio quando vengono usati per la gloria dell’uomo o per scopi dubbi – si pensi alla purificazione del tempio da parte di Gesù – in sé non sono un male, anzi. Certamente i contemporanei di Gioele hanno fatto male a screditare il nuovo tempo perché inferiore al primo rispetto alla bellezza esteriore; tuttavia i beni anche materiali, lo splendore le arti, tutte queste cose in sé possono essere usate per la gloria di Dio ed affluiranno, è detto, nella casa del Signore. Se il lusso e le ricchezze messe a servizio di pochi ci indignano, le stesse usate per l’utile comune o per la gloria di Dio non ci devono spaventare. Esse appartengono al Dio che rivendica come suoi l’argento e l’oro.  Ora, questo nostro appartamento non è certo un tempio sontuoso, né qualcosa di particolarmente importante per l’estetica. Ma sarà nostro dovere renderlo confortevole, bello gradevole per chi viene. E soprattutto sarà importante per noi che nella sua materialità è uno spazio che permette l’avanzare del regno di Dio e che aumenta la gloria di Dio. Questo è quello che ricerchiamo e che ci deve spingere a prendercene cura come se fosse casa nostra.
3. La ricerca della pace. ; in questo luogo porrò la pace.
L’ultima promessa che viene fatta rispetto al nuovo tempio è che in esso ci sarà pace. Una simile promessa per gli ebrei che erano reduci da un esilio e che avevano dovuto fronteggiare diversi avversari, interni ed esterni è molto forte. Il tempio non deve essere causa di divisione, ma di pace, di prosperità.
Io sogno che questo luogo possa essere una casa di pace. Di pace tra Dio e gli uomini per coloro che il Signore chiamerà attraverso l'uso di questo luogo. Perché il vangelo, l’annuncio del regno di Dio, in primo luogo è l’annuncio di questa buona notizia: è possibile in Gesù “fare pace” con Dio. Dio è adirato contro l’ingiustizia umana, contro le prevaricazioni, gli abusi, le guerre, i femminicidi, e più semplicemente contro l’autonomia umana che non è che una forma di divinizzazione della creatura. Ma Gesù è venuto per morire al posto nostro, prendendo su di sé i nostri peccati, permettendo possibile la pace tra uomo e Dio. Io prego che questo luogo sia usato perché più donne e uomini possibile possano trovare pace con Dio.
 Sogno che sia un luogo di pace tra di noi. Purtroppo in molti casi la sfida di vivere una fede comune, in modo rigoroso e impegnato porta anche a dividersi, a scontrarsi. Io prego perché invece questo luogo possa essere un collante che ci unisca di più, che permetta momenti di incontro e comunione che ci leghino.
Infine prego che sia un luogo di pace per chiunque entra pur non facendo parte di questa chiesa. Che possa trovare in questo luogo fisico pace, serenità, magari tempo per riflettere, silenzio per pregare, ed anche convivialità ed accoglienza. Questo è il senso pieno della pace e quando la materialità di un luogo serve ad incoraggiarla allora possiamo dire che tutto, l’or, l’argento, ma anche le pietre i mattoni, le persone sono di Dio.




Esodo 19. Natale sul monte Horeb

15 dicembre 2013 alle ore 18.04
Per leggere il capitolo 19 dell'Esodo clicca qui: http://www.laparola.net/testo.php?versioni[]=C.E.I.&riferimento=Esodo19



Dopo un viaggio nel deserto di tre mesi gli ebrei guidati da Mosè sono arrivati finalmente presso il monte Sinai, o Horeb, il luogo in cui Dio sceglie di rivelarsi. Siamo giunti ad un punto cruciale del libro dell’Esodo, a suo modo unico nella Bibbia perché Dio si manifesta in modo speciale a tutto il popolo, con segni e caratteri che non troviamo altrove.  Dopo essere stati liberati, dopo essere stati messi alla prova nel deserto, gli ebrei incontrano il Dio creatore della loro vita ed autore della loro liberazione.
            In questo periodo dell’anno si festeggia il Natale, periodo storicamente non confermato, ma convenzionalmente accettato in cui si ricorda che Dio si è fatto uomo nella persona di Gesù Cristo. Credo sia molto importante per capire la portata dell’incarnazione di Dio in un uomo, avere presente tutto quelle che c’è stato prima di questa incarnazione; per mettere a confronto con la vicinanza di Dio l’opportuna distanza che l’ha preceduta. “Avvicineremo” questo passo con tre diversi “avvicinamenti” del popolo al monte, ed a Dio stesso, e valuteremo come questi tre avvicinamenti possano essere adatti a chiunque vuole credere nel Dio che ancora oggi crea, libera e salva.
  1. 1.      Avvicinarsi con impegno
Dio ha fatto molto per questo popolo che arriva stanco ma libero al monte Sinai ed usa una bellissima immagine: le ali dell’aquila. Il Signore, come una madre premurosa, ha trasportato il suo popolo in un cammino di libertà e prima di esporgli una legge che regolerà sia la fede che la vita civile, vuole un incontro diretto con lui. Prima ancora di esporre una serie di regole chiede quindi un impegno personale: ubbidire alla sua voce e rispettare il suo patto (v.5). Non si tratta qui di porre delle condizioni che permettano di diventare il popolo di Dio. Israele è già il popolo di Dio, il Signore lo ha scelto per grazia e per amore. Smettere di ubbidire alla voce di Dio e non rispettare il patto significherà snaturarsi, rovinare la libertà regalata e mancare la grande missione: quello di essere il “tesoro”, “una nazione santa” ed “un popolo di sacerdoti.” Queste tre caratteristiche vanno ben sottolineate: il tesoro particolare riguarda proprio il rapporto diretto con Dio, di amicizia e fiducia; la “nazione santa” è una nazione che si percepisce e dimostra come diversa perché ha una missione speciale; il “popolo di sacerdoti” è tale perché ha la missione immensa e meravigliosa di portare la parola di Dio al resto dei popoli del mondo, non in quanto superiore, anzi, in quanto servitore. E’ un popolo che non è destinato a regnare sugli altri, ma a servire… Per tenere fede a questo mandato triplice ci vuole un impegno serio e deciso davanti a Dio, un sì che confermi l’identità che Dio ha già dato.
            Il Nuovo Testamento ci fa capire che questo mandato non è ristretto ad Israele, ma è stato direttamente ripreso dall’apostolo Pietro nella sua lettera e riferito a dei credenti che abitavano in Ponto e in Galazia: “ma voi siete una stirpe eletta, una sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato perché proclamiate la virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (I Pietro 2,9). Queste importanti missioni sono ancora le stesse per chi oggi vuole dirsi credente. Il mandato è grande e non consente leggerezza. Ancora oggi ci avviciniamo a Dio, ma quel Dio che ci chiama ci chiede un impegno preciso, un rispetto del suo patto che vuole stringere con noi, un sì alla sua persona, alla sua missione, alla sua verità. Siamo pronti a pronunciarlo, come il popolo ha risposto di sì?
  1. 2.      Avvicinarsi con fede (9 ; 16-20)
Prima di dare una risposta a questa domanda avanziamo nella lettura. Il Signore vuole che tutto il popolo ascolti la sua voce mentre parla con Mosè, ma senza vederlo. Ci dice esplicitamente che questo serve a fare sì che il popolo abbia fede in Mosè. Non certo per farne un Dio, ma perché il popolo creda che egli è veramente il profeta che Dio ha inviato per rivelarsi. Il verso 9, nella sua brevità, credo che condensi in poche righe, ed in forma narrativa, l’essenza della fede. Ci si deve affidare a qualcuno. In questo caso Mosè, che è qui una chiara prefigurazione di Gesù, non a caso presentato dal vangelo di Matteo come il nuovo Mosè. In questo affidarsi c’è un qualcosa che sfugge, qualcosa che implica un passo di “fede”, di credere in qualcosa che non si vede, anche se si sente. Ora ogni israelita sapeva bene che non si può vedere Dio e sopravvivere, perché Dio è talmente perfetto che la sua luce metterebbe allo scoperto ogni nostra bruttura. Tuttavia il fatto di non poterlo vedere ha anche qualcosa che fa appello alla libertà: vedere Dio significherebbe essere obbligati a credergli, non più essere liberi di credergli. Basta allora l’udito che è un indizio sufficiente ma non necessario per credere che qualcuno di straordinario sta parlando a Mosè.
Nel nuovo testamento il vangelo di Matteo, al capitolo 17 ci parla della trasfigurazione di Gesù, davanti Pietro, Giacomo e Giovanni. Anche questa avviene su un monte, ed anche qui salgono solo alcuni dei discepoli. Anche loro non vedono Dio direttamente, ma odono una voce che incoraggia a credere nel Figlio in cui il padre si è compiaciuto. Gesù è trasfigurato, quindi ha qualcosa di speciale, eppure non compare in quanto Padre, ma in quanto Figlio, Dio fatto uomo.
Oggi siamo confrontati a questa stessa sfida. Siamo pronti a prenderci un impegno forte nei confronti di Dio? Non aspettiamoci di avere prove schiaccianti quasi si trattasse di vederlo, di poterlo toccare. La vita sarà piena di voci che vengono da dietro le nuvole, di segnali che indicano fortemente che…, ma che non ci “costringono” a credere, come se si trattasse di accettare che vediamo le nostre mani o le persone che abbiamo intorno. Il Signore ci chiama sul suo monte per pronunciare un sì che scaturisce dalla nostra fede, dal nostro affidarci completamente a Dio, al fatto che quel Gesù venuto qui 2000 anni fa era veramente suo figlio, il profeta colui che solo libera, salva e fa vivere.
  1. 3.      Avvicinarsi con delicatezza e santificazione (10-15; 21-24)
Gli accorgimenti da prendere per avvicinarsi al monte e le punizioni inflitte a chi tocchi il monte o a chi si fa irruzione possono stupire. Eppure mai capiremo il Natale, la vicinanza completa di Dio all’umanità, senza questa premessa. La grandezza del Natale, del Dio che si fa uomo, sta nel fatto che Dio si avvicina ad un uomo che vuole stargli lontano e che ha scelto con i suoi peccati di stargli lontano. Perché il popolo non deve fare irruzione e deve avvicinarsi con delicatezza? Perché Dio è Dio ed avvicinarsi a lui significa rendersi conto che ci si avvicina a quel che esiste di più alto, di più sublime, di più puro sia possibile pensare ed immaginare. Avvicinarvisi ritenendosi superiori, con leggerezza o senza consapevolezza dei propri peccati significherebbe capire male chi si ha davanti. Molta attenzione viene posta ai rituali di santificazione, che erano puramente simbolici. Ma tutto questo aveva il semplice scopo non di allontanare, ma di responsabilizzare il popolo: popolo conosci te stesso. Sappi che non sei perfetto, sappi che hai dubitato, hai criticato, ha cercato di tornare in Egitto. Ma ora il Signore ti chiama ad avvicinarti.
Capiamo veramente il significato del Natale oggi? Dio si è avvicinato agli uomini facendosi uomo, ma noi ci rendiamo conto di cosa significhi che Gesù abbia accettato di prendere parte ad un’umanità che lo ha rifiutato ed ucciso?
Il Signore ha pensato a dei rituali di santificazioni validi anche per noi. Ha pensato di immolare suo Figlio Gesù Cristo proprio perché anche noi possiamo stare alla sua presenza senza paura del nostro peccato. L’apocalisse offre una bellissima immagine che descrive proprio questa situazione: “Poi uno degli anziani mi rivolse la parola dicendomi: Chi sono queste persone vestite di bianco e da dove sono venute? Io gli risposi: “Signor mio, tu lo sai”. Ed egli mi disse: “Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione. Essi hanno lavato le loro vesti e le hanno imbiancate nel sangue dell’Agnello”.
Il Signore ancora oggi ci chiama ad avvicinarci a lui, forse non su montagne fisiche, ma su quelle montagne spirituali che si oppongono tra noi e lui e che ce lo fanno sembrare troppo alto. Ci chiama a santificarci lavando le nostre versi nel sangue di Gesù, quel sangue versato per i nostri peccati che solo ci dà salvezza, cioè possibilità di stare davanti a Dio. Che questo Natale sia un momento di vicinanza reale, non rituale. Che sia un Natale di santificazione, non di consumi. Che sia un Natale che risveglia la nostra fede.  

Come amministrare? Esodo 18,13-27 – Marco 3, 13-18

8 dicembre 2013 alle ore 20.51
Esodo 18,13 Il giorno dopo Mosè sedette a render giustizia al popolo e il popolo si trattenne presso Mosè dalla mattina fino alla sera. 14 Allora Ietro, visto quanto faceva per il popolo, gli disse: «Che cos'è questo che fai per il popolo? Perché siedi tu solo, mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera?». 15 Mosè rispose al suocero: «Perché il popolo viene da me per consultare Dio. 16 Quando hanno qualche questione, vengono da me e io giudico le vertenze tra l'uno e l'altro e faccio conoscere i decreti di Dio e le sue leggi». 17 Il suocero di Mosè gli disse: «Non va bene quello che fai! 18 Finirai per soccombere, tu e il popolo che è con te, perché il compito è troppo pesante per te; tu non puoi attendervi da solo. 19 Ora ascoltami: ti voglio dare un consiglio e Dio sia con te! Tu sta' davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni a Dio. 20 A loro spiegherai i decreti e le leggi; indicherai loro la via per la quale devono camminare e le opere che devono compiere.21 Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini integri che temono Dio, uomini retti che odiano la venalità e li costituirai sopra di loro come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine. 22 Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una questione importante, la sottoporranno a te, mentre essi giudicheranno ogni affare minore. Così ti alleggerirai il peso ed essi lo porteranno con te. 23 Se tu fai questa cosa e se Dio te la comanda, potrai resistere e anche questo popolo arriverà in pace alla sua mèta».
24 Mosè ascoltò la voce del suocero e fece quanto gli aveva suggerito. 25 Mosè dunque scelse uomini capaci in tutto Israele e li costituì alla testa del popolo come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine. 26 Essi giudicavano il popolo in ogni circostanza: quando avevano affari difficili li sottoponevano a Mosè, ma giudicavano essi stessi tutti gli affari minori. 27 Poi Mosè congedò il suocero, il quale tornò al suo paese.
Marco 3, 13-18
13 Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. 14 Ne costituì Dodici che stessero con lui 15 e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni.
16 Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; 17 poi Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; 18 e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananèo 19 e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì.

Stare all’ascolto dei consigli di un saggio appena integrato nella comunità di fede degli ebrei, è un privilegio che per il poco tempo che dura va sfruttato fino in fondo. Da quello che leggiamo pare di capire che Mosè sia rimasto insieme a suo suocero Ietro solo 2 giorni, ma viene da dire: “Che giorni intensi!” In quei due giorni si toccano punti cruciali tanto per la vita di Mosè e per la sua famiglia che per la vita del popolo di Israele. Abbiamo già visto che la famiglia naturale di Mosè viene integrata nella comunità di fede. In questo secondo giorno i consigli di Ietro riguardano l’intero popolo di Israele e la sua amministrazione. Proprio per questo è interessante leggerli in parallelo con il passo del vangelo che riguarda l’elezione dei dodici da parte di Gesù, momento breve che pure riveste tanta importanza. Questi due passi, pur nella loro diversità, hanno alcune caratteristiche che possono ancora ben ispirare la condotta dei un leaders di ogni tipo, e quella di chi invece è guidato. Ma nel leggere sia i leader che chi è guidato dovranno saper rispondere ad un triplice incoraggiamento ad imparare.
  1. 1.      Imparare a delegare
Ietro osserva Mosè ed il suo rapporto con il popolo e non ci mette molto a rendersi conto che la sua gestione del popolo non funziona. Genera malcontento perché il popolo passa il tempo ad aspettare, e genera stress in Mosè che si occupa a giornate intere di gestire delle liti tra le persone. In questo Mosè, seppure a fin di bene, commette certamente un errore. Si sopravvaluta pensando di poter gestire tutto, mentre sicuramente non riesce ad accontentare tutti e perde tempo per altri impegni importanti. Pecca inoltre di orgoglio, perché non sa fare a delegare e sottovaluta quindi le persone che sono intorno a lui. Ietro quindi consiglia di suddividere il lavoro: Mosè insegnerà le leggi a tutti – cosa che non poteva fare passando il tempo a giudicare – e interverrà solo nei casi più gravi. Questo implica due cose: riuscire ad umiliarsi e riuscire a fidarsi. Per quanto riguarda Gesù le cose vanno in modo un po’ diverso, perché non possiamo dire che gli sia mancata l’umiltà. Possiamo però dire che dà un esempio di umiltà ai discepoli e che ha in loro una grande fiducia, perché non è cosa da poco delegare a degli uomini la diffusione del regno di Dio.
Quanto osserviamo in questi due leader biblici lo possiamo prendere come esempio anche oggi. In ogni chiesa ci sono guide che le diverse denominazioni chiamano pastori, anziani, responsabili, vescovi o altro, e nel corso della storia le chiese cristiane hanno spesso camminato in una direzione contraria a quella della condivisione della responsabilità, creando strutture verticistiche ed autoritarie che collocano tutto il potere in una sola persona. È un rischio costante che si può prevenire con strutture adeguate, come consigli di chiesa che affiancano l’operato del leader, organi esterni di controllo, assemblee periodiche che esplicitano tutto quello che si fa. Queste tuttavia possono solo mitigare i danni laddove  manchino in chi giuda la fiducia e l’umiltà necessarie a guidare. Oltre a queste è importante che chi vuole guidare prenda sul serio il consiglio di Ietro misurando fino a che punto è disposto a fidarsi umilmente degli altri come Mosè dopo il consiglio di Ietro, e Gesù nella scelta dei 12 hanno fatto. Un rapido cenno all’attualità: la figura di Nelson Mandela recentemente scomparsa ha mostrato di saper agire in questo senso: eletto presidente ha rinunciato al potere, mostrando che a cuore aveva il servizio, non il potere.


  1. 2.      Imparare a collaborare
Non ci sono però istruzioni solo per i leaders in questo passo. Anche chi è guidato da qualcuno che ha riconosciuto responsabilmente come guida ha la sua parola da dire ed il suo ruolo da imparare. Se il messaggio centrale del passo è che la gestione del popolo di Dio, ma anche più generalmente la gestione di un popolo umano, non sono mai affari di un solo, ma responsabilità collettive, allora chi non è un leader deve essere pronto ad offrire tutta la disponibilità possibile a collaborare per in bene comune. Se è vero che esistono problemi nelle chiese legati al dirigismo dei leader è anche vero che molti problemi vengono dal rifiuto di assumersi delle responsabilità e dal fatto che delegare, che è difficile per chi è tendenzialmente dispotico, è molto comodo per chi è pigro. Verissimo che Dio dice che le gli uomini non parlano parleranno le pietre, ma è anche vero che in assenza di uomini disponibili ad annunciare, a lavorare con Gesù, il vangelo non passa…
La responsabilità che Mosè ha dato, non a chiunque, ma a certe persone, e che ugualmente Gesù a dato ai 12, quindi non a chiunque è grande. Ognuno di noi ha il dovere di aprire il proprio cuore davanti a Dio per capire come può collaborare, come può sgravare il lavoro della conduzione di un gruppo, come può contribuire favorendo la gestione della cosa comune. Perché se è fondamentale per un leader avere fiducia, è anche fondamentale che una volta che l’ha data senta di avere dei collaboratori su cui può realmente contare. Siamo quindi chiamati ad essere guidati, ma ad esserlo collaborando a guidare per la gloria di Dio e non per quella di un leader.

  1. 3.      Imparare ad ascoltare tutti
E’ significativo osservare da chi sia venuto il consiglio. Ietro è un madianita e non è israelita. Nel passo precedente abbiamo assistito alla sua conversione che è consistita nel riconoscere che Javeh è il più grande degli dei. Resta che si tratta di un non israelita. La saggezza del suo consiglio da dove è venuta? Dalla sua esperienza umana, dal suo essere stato sacerdote madianita o da una rivelazione divina? Il testo non si pronuncia né in un senso né in un altro, benché Ietro dica esplicitamente al v. 23 “e così Dio ti ordina”. Essendosi convertito da appena un giorno, possiamo pensare che la sua intelligenza umana, le sue esperienze che in quel campo erano superiori a quelle di Mosè, che è un leader nascente, siano state in pieno accordo con la volontà di Dio, che avrà confermato quello che sentiva. Si tratta infatti di consigli piuttosto ordinari che non richiedono chissà quali rivelazioni, ma che nondimeno vanno dati nei momenti giusti. Possiamo quindi aggiungere che un messaggio di questo passo è che bisogna imparare ad ascoltare tutti, anche chi è appena entrato in un gruppo, come Ietro, perché può avere uno sguardo anche più distaccato e chiaro sulle dinamiche del gruppo. Gesù tra i suoi sceglie gente piuttosto diversa; pescatori per lo più, ma anche esattori di imposte come Matteo, attivisti politici come Simone lo zelota. Ognuno arriva con la sua esperienza e la sua diversità. Non sono queste a qualificarli come buoni credenti, ma tutti si inseriscono con i loro bagagli culturali ed umani in un gruppo in cui avranno delle responsabilità.
La grossa sfida della chiesa di oggi è di imparare ad ascoltare veramente tutti. Nella società multietnica e plurale si può rischiare di marginalizzare all’interno della chiesa chi non fa parte di una chiesa da tanto, chi è straniero ed ha una comprensione della realtà diversa da chi è sempre stato in uno stesso posto. Il messaggio di Ietro è anche questo: seppure madianita, ed adoratore di Jahveh da poco il suo consiglio è stato importante e cruciale per la vita del popolo.

Mosè e Ietro. Esodo 17

           
Mosè e Ietro
Se il precedente capitolo raccontava di uno scontro con una popolazione avversa, questo nuovo episodio fa da contraltare: è un capitolo di riconciliazione. Mosè ritrova suo suocero, Ietro, che aveva lasciato anni prima per portare a compimento la sua missione. Ora lo ritrova, e scopriamo un nuovo dettaglio: la moglie di Mosè Sefora, con i due figli Gershom ed Eliezer sono tornati in Madian presso Ietro, forse per lasciare Mosè più libero nel portare avanti la sua missione, forse per risparmiare loro dei rischi. L’intero passo, tuttavia è permeato di un buon sapore di riconciliazione che culmina in un sacrificio di lode a Dio.
  1. Ietro udì tutto quello che Dio aveva fatto.
Non sappiamo come la notizia sia circolata, né chi abbia portato a casa di Ietro questa grande notizia della liberazione degli ebrei, comunque sia la notizia è arrivata. In un mondo grande, in cui un popolo grande schiavizzata e minacciava un popolo piccolo, le grandi opere del Signore sono giuste ad una piccola famiglia… Ma prima di giungervi devono aver girato avendo una grande eco presso le popolazioni locali. L’insistenza suoi nomi dei figli e la partenza di Ietro incontro a Mosè stanno a testimoniare di come negli anni la famiglia di Mosè non si sia mai dimenticata di lui, ma abbia continuato ad aspettare questo importante momento. Ecco che è arrivato.
Noi viviamo in un mondo ancora più grande, dotato di mezzi di comunicazione impressionanti, capaci di far sapere in pochi secondi ciò che accade a molti chilometri di distanza. La sfida per i cristiani di oggi è che le grandi opere di Dio non si perdano nella grandezza del nostro mondo, reale e virtuale, ma che vengano annunciate, dette. Che possano circolare e diventare note come lo sono state al tempo di Ietro. Non solo è importante che si facciano culti pubblici, che si intervenga nei social network, sui media e dove si può, ma anche che si parli di cosa Dio opera di grande tra di noi, perché questo messaggio attraversi lo spazio senza essere perso. 

  1. La famiglia naturale, la comunità spirituale
    Mosè alcuni anni prima si era separato da una parte della sua famiglia per portare avanti una missione importante. Non tutti sono pronti a farlo, né tutti sono chiamati, ma il fatto che questo sia successo ci fa capire di come certe grandi opere richiedano un grande sacrificio, perché stare lontano dai propri figli e dalla propria moglie è un sacrificio enorme. La forza di questo incontro dopo diversi anni è che non ci viene descritta semplicemente una bella scena di ritrovo famigliare, seppure queste siano sempre una bella cosa. Ietro non ritrova semplicemente suo genero e Mosè non ritrova semplicemente suo suocero, sua mogli ed i suoi figli: la famiglia di Mosè viene ora integrata nella nuova comunità di fede che ha vissuto la liberazione dell’esodo. Il fatto che la famiglia naturale non sia stata presente nell’esodo non significa che non possa capirne la portata spirituale, e diventare oltre che famiglia naturale famiglia spirituale. Accanto agli elementi dell’affetto, dell’amore filiale e tra moglie e marito, si aggiungono note nuove: tutti si ritrovano nel grande Dio che ha operato. Per questo l’incontro avviene proprio davanti al monte di Dio, in una tenda che è simbolo del santuario israelita, e culmina con un sacrificio. Passare da semplici parenti carnali a parenti spirituali. Ecco il miracoloMolti di noi oggi hanno famiglie che non condividono la fede. Questo pone un elemento di diversità, se non di separazione tra di loro ed è un qualcosa che dispiace. Lo si può gestire nel migliore dei modi, ma l’ideale sarebbe proprio trovare questo livello di unità anche spirituale. Ecco allora che questo passo ci incoraggia proprio in questo senso: la famiglia naturale può diventare la famiglia spirituale. Annunciamo in famiglia le grandi opere di Dio, la sua forza liberatoria e salvifica, i miracoli che può fare contro le moderne incarnazioni delle forze demoniache rappresentate da faraone. Il Signore forse ci darà un giorno la gioia che ha dato a Mosè di un incontro spirituale oltre che naturale ed affettivo.
    1. La conversione di Ietro
    Il punto culminante dell’episodio è quello in cui Ietro riconosce pubblicamente che Jahvéh è veramente il più grande degli dei. Sappiamo che era sacerdote in Madian, quindi conosceva probabilmente altre divinità e per quanto fosse stato d’accordo con Mosè ed avesse certamente già condiviso con lui chi fosse Jahveh, ora fa un passo supplementare. Lo confessa pubblicamente e si rallegra con tutti. Questo ci fa capire che la comunità dell’esodo è una comunità aperta, pronta ad integrare chi riconosce la grandezza di Jahvé. I madianiti, si diceva, fanno da contraltare agli amalechiti che hanno combattuto contro gli ebrei attaccandoli all’inizio del viaggio. Qui al contrario c’è alleanza e accettazione. Non solo, c’è integrazione e fusione dei due popoli. La grande sfida lanciata da questo passo ci riguarda ancora: Ietro ha colto una differenza in questo Dio. In ciò che questo Dio ha fatto nel suo popolo. Ci dobbiamo porre questa domanda: ciò che viviamo oggi con il nostro Signore, il modo in cui ci libera, e ciò che raccontiamo di questa liberazione è ancora un qualcosa che tocca e sconvolge chi ci sta intorno portandolo a convertirsi all’autore della liberazione o no? Le cose che viviamo oggi sono diverse: non vedremo forse il mare rosso aprirsi e delle schiere di nemici cadere. Ma saremo portatori di una libertà interiore, e di una forza proveniente da questo Dio che ci renderà diversi. Ma tutto ciò emerge? Viene fuori o ce lo teniamo per noi? Noi vogliamo che ieri come oggi il messaggio attraversi il deserto, i paesi le città e diventi noto. Allora teniamoci pronti ad annunciare! AMEN

    Esodo 17, 8-16: stare un'ora con le mani in alto e provare cosa si sente.

    Può sembrare un modo strano di leggere la Bibbia, eppure proprio questo esercizio può portarci a capire diverse cose relative al passo che leggiamo oggi.

    1. Gli amalechiti: perché tanto accanimento contro di loro?
    I problemi di un viaggio nel deserto non sono solo la fame e la sete, ma sono anche dovuti alla presenza di nemici umani. Per altro quelli che incontriamo qui non sono propriamente degli estranei. Visto che Amalec viene nominato come qualcuno di noto, si sta sicuramente parlando di quell'Amalec figlio di Elifaz e nipote di Esaù, che vive nel deserto del Neguev e che è a capo di una popolazione di nomadi. Non viene spiegato perché attaccano, ma il messaggio è chiaro: Israele non deve illudersi che una volta uscito dall'Egitto i problemi di rapporto con altre popolazioni siano finiti. Amalec è una nuova incarnazione delle forze egiziane. Perché verrà maledetto con un verdetto così forte al punto che si deve scrivere quanto è successo? Perché se l'Egitto ha tentato di sterminare Israele come neonato, Amalec prova a farlo come adolescente, in un momento molto delicato del suo viaggio nel deserto. E' un episodio di guerra unico tra i racconti del deserto, eppure molto significativo.
    Nella vita della fede si incontrano ugualmente nemici ed ostacoli proprio nei momenti di maggiore debolezza. Spesso nemici umani e spessissimo proprio all'interno delle stesse comunità di fede: persone di chiesa che vivono una fede falsa, autorità o lontane conoscenze che invece che incoraggiare la scoperta della vita la distruggono e la insidiano, scoraggiandola. E' una cosa gravissima frustrare la speranza di chi si avvicina a Dio, e per questo il peccato di Amalec è tanto grave. Mai come in questi momenti è necessario combattere, oggi ovviamente solo in senso spirituale, ma allora anche militarmente con le armi unite ad una presenza di Dio particolare.

    2. La fede in Dio
    Apparentemente Dio è assente dai momenti della battaglia. Non è lui che ha detto a Mosè di ingaggiare il combattimento e non è lui a suggerirgli la modalità di combattere con questa strana cerimonia per cui Mosè si tiene in cima ad un monte con le mani alzate. C'è sempre il solito bastone, operante nei diversi miracoli, ma soprattutto c'è una certa posizione di Mosè. Escludendo interpretazioni magiche tanto della posizione di Mosè quanto del suo bastone, credo che lo slanciarsi verso il cielo con le mani e con il bastone stesso di Dio sia un modo molto chiaro per dire che anche se l'impresa è partita da iniziativa umana, non andrà avanti senza una fiducia ed un riferimento costante a Dio. Non è la forza in sé dell'esercito che vince, ma il fatto di vedere Mosè con le mani alzate verso il cielo che permette di vincere. La lingua ebraica ci aiuta in qualche modo a capire questo forte rapporto tra mani alzate e fede: l'aggettivo "ferme", "solide" che nel v.13 è riferito alle mani di Mosè sostenute (emunah), viene una radice che indcia solidità, affidabilità, ma che è è usato anche per costruire il verbo "credere"; è anche la stessa da cui deriva la parolina "amen" che diciamo alla fine delle preghiere per indicare l'assenso. Insomma, questa posizione delle mani levate e la loro fermezza sono sono un simbolo di quella che deve essere la fede, del popolo di ieri come di quello di oggi. Non vinciamo le nostre vittorie e le nostre battaglie per la nostra forza propria, ma se riusciamo a visualizzare questa vittoria come un uomo che leva le mani al cielo. Se riusciamo ad avere una fede, certa, solida, ferma come le mani di Mosè che intercede per il popolo.
    A questo si aggiunge che oggi, come credenti, abbiamo più di Mosè che intercede per noi: Cristo, quindi Dio stesso, non più a mani levate, ma levando se stesso come offerta a Dio intercede per noi presso Dio per ogni nostra lotta.

    3. L'aiuto degli altri
    Non è trascurabile in questo l'aiuto degli altri. Il passo comincia con Amalec, l'avversario, colui che si oppone al rogetto di Dio, ma questo non si traduce in una sfiducia complessiva sul genere umano. Oltre ad Amalec nel passo ci sono due importanti personaggi: Aronne, il fratello e Cur. Questi due personaggi svolgono una funzione importante, sostengono le braccia di Mosè, e portano una pietra su cui si possa poggiare. Questa azione prelude in modo importante a quello che succederà nel capitolo successivo, con una suddivisione di compiti. La fede ed il cammino del popolo di Dio non è mai opera di un unico supereroe e per quanto Mosè abbia un ruolo preminente e centrale, non è mai solo nella conduzione. Questi due amici, fratelli vengono in aiuto alla sua debolezza e potremmo dire che se l'azione rappresenta la preghiera e l'intercessione allora questi pregano con lui, e lottano con lui.
    Chiediamoci oggi in che modo possiamo aiutare il compito di chi nelle chiese fa da guida, da pastore, da anziano, da dottore, da responsabile. Come favorire chi guida, come aiutarlo, come sostenerlo. Cominciare a stare sotto le braccia di chi prega, pregando con lui e pensando a delle pietre perché possa sedersi è già molto. Che ognuno pensi ad un modo per farlo.

    Camminare nel deserto. Esodo 17,1-7

    Esodo 17, 1-7

    Il deserto è un bel posto? E' possibile tentare Dio? Queste due domande apparentemente slegate sono al centro del passo su cui meditiamo oggi, passo citato a più riprese in diverse parti dell'Antico e del Nuovo Testamento. Ci illustrano un momento del cammino del popolo che attraversa il deserto di Sin e che nuovamente ha difficoltà a trovare acqua. Queste difficoltà lo spingono a dubitare del viaggio stesso che sta facendo, ed in ultima analisi a mettere in dubbio che Dio abbia veramente voluto liberare il popolo per portarlo in quel posto disumano. Eppure è proprio Dio che ha spinto il popolo in quel posto, ed è proprio Dio che ce lo ha portato per metterlo alla prova (Es 15, 25). Dobbiamo allora riflettere sul perché di questo cammino nel deserto e sulle prove davanti a cui siamo confrontati nella vita che potrebbero portarci a nostra volta a mettere alla prova Dio.

    1. Il deserto e la precarietà
    Per chi come me ha conosciuto il deserto con gli occhi del turista che attraversa in macchina una bellissima distesa di sabbia intervallata da oasi di palmizi il viaggio di Israele nel deserto potrà sembrare un'avventura affascinante e attraente. Forse lo è, ma non certo per il luogo. Il deserto, per chi lo attraversava nell'antichità, era un luogo impervio, ricco di pericoli e mancante di molte sicurezze come l'acqua e il cibo. Il Signore in questo caso sceglie proprio di portare il popolo in un posto dove manca l'acqua, mettendo quindi alla prova la loro fede. Vale la pena essere stati liberati per andare in un posto dove manca l'acqua? Vale la pena rischiare di perdere la vita per avere una vita libera? La risposta è inequivocabilmente sì, ma questo "sì" va imparato. Il fatto che gli ebrei continueranno ad essere un popolo in cammino per molti anni nel deserto risponde ad un preciso progetto di Dio. Il fatto che il deserto sia un luogo precario, in cui non si sa mai se si arriverà ad un'oasi o meno, se si mangerà e se si troverà acqua, fa sì che sia un luogo in cui si esercita la fede e la fiducia in Dio. Il fatto che non ci sia un luogo fisso in cui stare e che si proceda verso una promessa che arriverà molto dopo ben ritrae la condizione della vita. Chi ha scelto di camminare con Gesù, dando a Lui la precedenza a tutto, cammina verso una promessa finale di salvezza assoluta, ma durante questo cammino vive nella precarietà del deserto, ed impara a confidare. I cristiani si considerano stranieri su questa terra, ma allora devono accettare la sfida di credere che quanto hanno, in beni materiali, sicurezze economiche, o beni immobili sono veramente relativi. Non ci viene chiesto di andare a vivere nel deserto ma di credere che una condizione come quella del deserto che ci stacca dalle sicurezze materiali che abbiamo abbia in sé un forte valore istruttivo.

    2. Il deserto e la tentazione
    Il deserto è quindi una scuola, e come in tutte le scuole ci sono vittorie e sconfitte. Nonostante i miracoli della manna appena visti il popolo si preoccupa e si arrabbia con Mosè rendendolo di nuovo responsabile della mancanza d'acqua. Mosè risponde quindi che il popolo sta tentando il Signore. Si tratta di un fatto singolare. In realtà è il Signore che tenta il popolo, nel senso che lo mette alla prova (15,25). Il popolo sa bene che è messo costantemente ad una prova che deve far crescere la sua fiducia, ma non crede, recalcitra. Trasforma quindi la fede in certezza concreta, tentando Dio. Tentare Dio significa pretendere che la fede in lui sia condizionata da prove materiali e schiaccianti della sua presenza e viene infatti spiegato che il posto si chiama Massa e Meriba perché il popolo si è chiesto: "L'Eterno è in mezzo a noi o no?" Quindi il popolo avrà fede solo e soltanto se avrà ciò che domanda, ciò che vuole. Solo se il deserto che Dio ha scelto per loro sarà clemente e non sarà deserto, ma già promessa realizzata. Ma allora la fede non è più fede, è oggettività, costatazione di fatti concreti.
    Spesso come credenti agiamo nella stessa maniera condizionando la nostra fiducia nei confronti di Dio alle sue risposte concrete ai nostri problemi. La fede, quella vera fede che fa piazza pulita di tutto, desertificando la nostra vita ed i suoi peccati per creare qualcosa di nuovo significa accettare che Dio possa portarci in delle oasi, ma anche in questo luogo privo di acqua. Significa lasciare che sia Lui a guidare la nostra vita, e soprattutto significa imparare a confidare proprio laddove le promesse che vorremo non si realizzano. Le numerose disgrazie a cui abbiamo assistito questa settimana, tra le quali un tifone che ha ucciso 4500 persone porteranno molti a negare che un Dio buono possa essere presente. Premesso che questo Dio buono non ha mai detto che questo mondo sarà felice, privo di dolori e di catastrofi naturali, soprattutto se esse derivano anche da responsabilità gravi degli abitanti della terra, autori del surriscaldamento del pianeta, ci sarebbe da dire che è proprio questo il momento di credere, di interrogare Dio, un po' come fa Mosè che dice: "Che farò io?", e che nonostante la domanda continua a confidare ed ad affidarsi.

    3. Il deserto e la fiducia
    Il deserto di Sin non è un luogo ospitale. Se pensiamo alla creazione, agli alberi, ai frutti ai colori con cui Dio ha riempito la terra, si potrebbe pensare che il deserto sia una specie dinegazione della creazione. E' in effetti un luogo per lo più arido in cui la vita fatica a sopravvivere. Basti pensare che uno dei mali ambientali che oggi combattiamo è quello della desertificazione che vede l'avanzare del deserto sottraendo terreno utile all'agricoltura. Certamente da un punto di vista simbolico questo deserto è discontinuo rispetto alla creazione. Tuttavia vediamo che in esso Dio opera e offre dei segni di vita: Mosè aveva gettato il suo bastone nel fiume per farlo diventare sangue, ora con lo stesso bastone ottiene l'acqua che sgorga dalla roccia. Nel deserto quindi i segni di vita ci sono, solo che sono nascosti.
    Camminare nel deserto oggi significa proprio questo: imparare a leggere dietro la sabbia, imparare a scoprire che dietro rocce apparentemente aride e sassose si nascondo corsi d'acqua che dissetano, se sono colpiti dal bastone della fede.
    Ma c'è di più. La roccia che dà acqua è sul monte Oreb, quindi sul Sinai. Non è un caso che la fonte d'acqua di vita si trovi nello stesso luogo in cui ci sarà la fonte della legge. Perché come dall'acqua viene la vita, così dalla legge viene la vita.
    Molti anni dopo Gesù parlando con una donna Samaritana davanti ad un pozzo si autoproclamò "acqua viva che scaturisce in vita eterna" (giov 4). In Gesù vediamo unirsi l'acqua della vita che sostenta la vita fisica, materiale emotiva, e la legge che sostenta la vita morale. Se la vita ci sembra un deserto, se abbiamo una sete spirituale provocata dall'arsura, se non vediamo piante verdi portatrici di vita, siamo invitati a bere dalla fonte d'acqua viva di Gesù, unica capace di dissetarci eternamente.

    Esodo 15:22-16
    Per leggere Esodo clicca qui:


    Inizia un nuovo periodo per il popolo di Israele, il periodo del deserto che è una sorta di adolescenza, di cui la liberazione è stato il parto, l'infanzia. Il popolo dovrà camminare per 40 anni, in cui verrà formato, e non sono pochi. Ma necessari per imparare ad essere. Necessari per acquisire l'identità che il popolo di Israele deve scoprire.

    1. Le lamentele e la sfiducia.
    Si sentono ancora i canti di gioia per la liberazione cosmica narrata nel canto di Mosè e di Miriam, quando il popolo viene confrontato con un problema molto concreto: la sete e la fame! Durante la prima piaga non si poteva bene l'acqua perché era diventata sangue, ed ora non si può bere l'acqua nel deserto perché è amara. La piaga della grandine distruggeva il cibo, quindi non si poteva mangiare. La prospettiva di liberazione sembra venire meno, e le promesse fatte da Mosè sono disattese, quindi cominciano le lamentele.
    Per quanto risentiti, né Dio né Mosè si arrabbiamo, ma intervengono con progressive benedizioni: prima purificando l'acqua con un semplice legno; poi riportando il problema sul piano spirituale, cioè al rapporto con Dio. Se il tuo rapporto con Dio è buono, i pericoli che possono far riecheggiare le piaghe egiziane (acqua imbevibile, grandine che elimina il cibo), non sussisteranno. Una volta ristabilito questo rapporto, la benedizione viene moltiplicata con un luogo fatto di dodici fontane. E da cielo pioverà la manna.
    Nelle comunità di fede le lamentele non mancano mai. Ci sono responsabilità da parte di tutti, ed oggi nessuno può dirsi un Mosè a capo di un popolo nel deserto. Del resto l'umiltà di Mosè ed Aronne è già evidente: "Chi siamo noi perché mormoriate contro di noi" (8) Nondimeno, il Signore ci invita a non mormorare e al limite a chiarire gli eventuali problemi, che potrebbero essere non la sete, ma la mancanza di un luogo di culto, o la mancanza di finanze, o la mancanza di crescita. Questo passo ci invita a pensare che la soluzione non è mai nei mormorii, né contro i Mosè di turno, né contro i compagni di viaggio, ma nella revisione di un rapporto con Dio. Il Signore dà una legge, una prescrizione e mette alla prova: chiede quindi impegno e responsabilità, ma riversa in partenza grandi benedizioni. Siamo pronti ad accoglierle?

    2. La manna e la fiducia.
    Invece che grandine distruttrice piove dal cielo manna nutriente e quaglie che si possono mangiare. Si tratta di una vera e propria iniezione di fiducia nei confronti del popolo, che Dio in effetti mette alla prova: ha dato il sostentamento di base. Si può mangiare e sopravvivere. Questa fiducia accordata, nonostante la loro fiducia, è sufficiente per farli andare avanti?
    La manna è un simbolo vivente di fiducia: non bisogna prenderne più del dovuto perché il popolo deve imparare ad avere quotidianamente fiducia nel Signore. Non è l'accumulo dei beni che dà fiducia, la garanzia di un pasto, ma il credere che Dio provvederà quei beni.
    E questo è ancora più vero nel sabato sacro al Signore: non è giorno di digiuno, si può mangiare, ma è consentito accumulare per non dover lavorare in quel giorno e viverne tutta la sacralità: il riposo, il culto, la celebrazione.
    In un mondo dominato dalla logica dell'accumulo o del risparmi per salvarsi dalle cristi, ci sarà difficile pensare alla manna, altrimenti che in termini spirituali. Ma proprio come l'esortazione che Gesù ci fa a non essere ansiosi ed a dirci: basta a ciascun giorno il suo affanno, questa manna che quotidianamente nutre, ci deve fare pensare all'importanza ieri come oggi di vivere la fede nel quotidiano, giorno per giorno e nelle cose concrete. Ci deve insegnare a ringraziare prima dei pasti, in modo molto semplice, perché abbiamo avuto la nostra manna. Ci deve insegnare spiritualmente che ogni giorno Dio provvede un sostentamento che ci permette di andare avanti. Ci può provvedere poche parole, qualche idea profonda, che nondimeno nutrono il nostro spirito facendoci guardare al di là delle sabbie del deserto spirituale in cui viviamo.

    3. L'omer ed i discendenti: Gesù, il pane disceso dal cielo.

    Mosè trasmette a Mosè l'ordine del Signore, dicendogli che deve mettere la manna in un vaso, per i discendenti. Infatti questa manna concreta esiste per un tempo limitato, circoscritto ai 40 anni che Israele passa nel deserto. I discendenti sapranno che il Signore ha provveduto in quel modo, ma scopriranno una verità ancora più profonda: esiste un pane che scende dal cielo, che ha proprietà nutrienti, curative e spirituali ben maggiori di quelle della manna: Gesù stesso ha fatto il paragone dicendo: "In verità, in verità vi dico che non Mosè vi ha dato il pane che viene da cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene da cielo" - "e che dà la vita al mondo".
    Se il racconto si fosse fermato all'Esodo, sarebbe una specie di mito, di leggenda o di favola, edificante, ma relativamente poco utile. Le parole di Gesù sono lì per dirci che in fondo il vero miracolo non è quello di poter mangiare, ma quello di potesi nutrire di parole celesti, che danno vita eterna. Perché andare a lui e credere in lui significa non avere più né fame né sete. Significa avere vita eterna. Questa è la sazietà che la nostra società opulenta spesso non conosce, ma che non smetteremo di annunciare!