venerdì 17 gennaio 2014


La costituzione di Dio - Esodo 20.

12 gennaio 2014 alle ore 21.35
I dieci comandamenti
Siamo davanti ad un testo che nella cultura occidentale è diventato estremamente conosciuto: chi non conosce i dieci comandamenti? E’ interessante che li troviamo proprio nel bel mezzo di un racconto, come per dire che la legge divina non è mai lontana dalla vita del popolo a cui è data. I nostri codici giuridici, non sono in genere iscritti in dei racconti, e non a caso sono fatti e letti da tecnici specializzati, mentre questi comandamenti, che sono una specie di costituzione, di carta fondamentale di quel che Dio chiede agli uomini, si collocano in mezzo ad un racconto di liberazione e cammino nel deserto. Per il popolo di Israele questi comandamenti erano lo strumento per mantenere la libertà ottenuta, e per capire la volontà di Dio. Per noi, il loro senso non cambia, e seppure sappiamo di essere salvati incondizionatamente dalla fede in queste dieci parole troviamo una guida sempre attuale, ed applicabile indistintamente in ogni epoca.
Esaminiamo oggi i primi quattro comandamenti che riguardano Dio.
  1. 1.      Io sono il Signore Iddio tuo…
 Dio si presenta con il suo nome e salta subito agli occhi che la prima caratteristica che Dio dà di sé è che è: “Iddio tuo”, fondando quindi un senso di appartenenza, una relazione a tu per tu. Continua ricordando che è proprio quel Dio che ha liberato dalla schiavitù. Dio avrebbe potuto cominciare a descriversi come creatore, o come onnipotente, enumerando quindi delle sue qualità generali come quelle che troviamo nei libri di teologia sistematica. Invece preferisce ancorarsi nella concretezza della vita e rivelarsi in primo luogo come Dio nostro e liberatore. In virtù di questo vieta che esistano altri dei all’infuori di lui. Israele vive in un contesto in cui ci sono altre religioni e la tentazioni di cercare altre divinità c’è. Ma sono divinità che non liberano, e che non impostano con la persona un rapporto diretto e personale. Semplicemente perché “non sono”.
Questa stessa parola si rivolge a noi oggi. Dio è qualcuno che cerca con noi un rapporto personale in modo tale che ognuno di noi possa dire che Dio è mio, e che si riconosca in una relazione in cui Dio dice: “io sono l’Iddio tuo”. Ed è un Dio che ci ha liberati. Potremmo elencare numerosi padroni spirituali dai quali Dio ci ha liberato, che possono andare dalla droga, all’alcol, al carattere, ad una vita priva di senso, dalla tristezza o ancora dalla disperazione. Ma in primo luogo Dio ci ha liberati da noi stessi, dall’idea di voler far dipendere la nostra vita da noi, o da altre divinità fatte di nostre soddisfazioni, giochi, hobbies, famiglia, lavoro, ecc. Assolutizzare ognuno di questi “dei” ci rovina, perché niente è degno di prendere il posto di Dio. Il vuoto che è dentro di noi e che ha forma di Dio, può essere riempito solo da Dio.
E’ vero però che molti di noi di questa liberazione hanno abusato, e contenti di essere liberati da Dio si illudono di essere liberi da Dio stesso. Dio libera, ma per renderci suoi servitori. Non perché sia un sovrano che ha bisogno di sudditi, ma semplicemente perché la nostra realizzazione avviene nel momento in cui accettiamo pienamente la nostra creaturalità rispetto ad un creatore. Siamo creature di Dio, e possiamo diventare figli di Dio. Ma questo implica dei doveri, delle responsabilità. Non siamo liberi di non lodare… Non siamo liberi di non amare… Non siamo liberi di non servire… Perché Dio ci ha liberati proprio da una vita che era negazione di servizio, lode ed amore. Meditiamo quindi quotidianamente il senso della libertà ricevuta, per non cadere sotto nuovi padroni.
  1. 2.      Non ti farai statua alcuna…
A differenza della religioni che stavano intorno ad Israele, Dio proibisce di farsi delle immagini, delle statue e degli idoli che lo rappresentino. Questo in parte sottolinea nuovamente la condanna dell’idolatria, in parte ci dice molto sulla natura di Dio: rappresentare Dio significa negare sia la sua trascendenza che la sua vicinanza. Dio “trascende” il mondo, cioè è al di là delle cose che vediamo, è più grande e di natura diversa di ognuna di esse. Non deve quindi essere ridotto a queste, altrimenti viene distorto, falsato. Rappresentandolo, anziché averne un’immagine più chiara, lo riduciamo e lo fraintendiamo. Questo distrugge anche la sua vicinanza, cioè il modo in cui si relaziona con il popolo. Molti salmi mettono in guardia il popolo dalle statue che non sentono, non vedono, non hanno sentimenti, mentre Jahaveh ce li ha, perché non è un idolo inanimato.
Il ricorso ad immagini è molto frequente in diverse religioni, anche rientranti nel cristianesimo, ma i comandamenti sono molto categorici: né con statue, né con crocifissi, è giusto rappresentare Dio perché lo si limita. Nelle chiese evangeliche in genere questo messaggio relativo alle statue è ben compreso, ma sarebbe un errore fermarsi qui. Credo che sia un’idolatria qualunque forma di limitazione della trascendenza di Dio. Molte chiese infatti, seppure senza immagini e statue, si trasformano nella norma assoluta che stabilisce come è fatto Dio, finendo per affermare un possesso della verità molto vicino all’idolatria. La verità si identifica allora con quella specifica chiesa (è quanto afferma anche il cattolicesimo nel suo credo) e nuovamente viene ridotta e limitata. E’ nostro compito vivere la fede, e ricercare Dio, cercando di non imporre a nessuno altro che la Scrittura – che non è statica – che fornisce la giusta immagine di Dio.
  1. 3.      Non pronunciare il nome dell’Eterno invano…
Il recente dibattito sulla possibilità di dare ai figli il cognome della mamma ci fa vedere che ancora oggi il nome è un qualcosa di molto importante, a cui si tiene e che in qualche modo porta con sé le caratteristiche della persona. Abbiamo già commentato che Jahveh ha questo nome ricco, che indica l’essere, l’eternità, la non riducibilità ed altro. E ricordiamo anche che nell’esodo Dio ha molto volte affermato che tutta la terra avrebbe dovuto conoscere il suo nome.  Usare il nome di Dio invano significa rovinare la sua reputazione, associarlo a pratiche per cui chi sente parlare di Dio se ne allontana. Ma cosa significa usare invano? In che modo gli israeliti avrebbero potuto usare il nome di Dio invano?  Gli ambiti di applicazione sono numerosi. Certamente la falsa profezia, fatta nel nome di Dio, è un uso vano. Così lo è chiamare Dio in causa per i propri interessi. Pensiamo a tanti partiti politici che prendono in prestito il nome di Dio, oppure si dichiarano vicini alla chiesa, raccontano le loro pratiche religiose per catturare voti; sono tutti usi peggio che vani, strumentali del nome di Dio. Certamente possiamo far rientrare le frequenti bestemmie che sentiamo, che invocano Dio spesso ormai quasi inconsapevolmente, per offenderlo. Credo tuttavia che ci sia di peggio. Quando le chiese perdono di vista i loro veri obiettivi, quando smettono di lodare e di onorare il nome di Dio e finiscono per proporre dei riti vuoti, delle funzioni sterili, che su Dio non comunicano niente, quando scivolano nella religiosità perdendo la spiritualità, ecco che il nome di Dio è usato invano. Se al culto non preghiamo sentendo qualcosa di forte per Dio, stiamo usando invano il suo nome.
  1. 4.      Ricordati del giorno del Signore per santificarlo.
A chi di noi capita di scordare che un certo giorno è domenica? Ci capita quando siamo in vacanza e sentendoci liberi perdiamo la cognizione del tempo. Ma durante la settimana è difficile scordare che siamo durante il giorno in cui finalmente non si lavora e ci si riposa – fa eccezione chi per motivi imprescindibili deve lavorare di domenica. Forse per gli ebrei nel deserto, che vivevano in una società meno strutturata, e secondo le circostanze anche metereologiche, era meno scontato che un certo giorno non si lavorasse: se ha piovuto per 10 giorni e di sabato c’è il solo, come si fa a non riprendere il lavoro di allevamento o coltivazione proprio in quel giorno? Ecco perché c’è un esortazione al ricordo del giorno. Ma c’è di più: il lavoro sfrenato disumanizza, ieri come oggi. Lavorare e basta finisce per alienarci, e renderci schiavi, facendoci perdere di vista sia il nostro rapporto con Dio che quello con gli altri. Ecco allora il giorno del sabato che è una specie di “santuario nel tempo”, che ci permette di prendere del tempo per noi e per Dio.
Purtroppo la nostra società ha colto la forma di questo comandamento, ma ne ha rinnegato la sostanza. Nei contratti di lavoro è in genere previsto un giorno di pausa, sebbene ultimamente si tenda sempre di più a spingere per il lavoro domenicale, con apertura di negozi, supermercati ed altro. Ci garantiamo quindi un giorno di riposo, ma non sempre facciamo di questo riposo “lo shabbat di Dio”. Mi colpì un giorno l’osservazione di una sorella olandese che mi disse che nella loro chiesa incoraggiavano a passare la domenica pomeriggio, dopo il culto e l’adorazione, a studiare la parola, ad approfondire qualche tema. E’ vero che per molti di noi la domenica diventa l’unico momento libero della settimana ed in questa si coltivano un po’ tutte le relazioni sociali, familiari e di chiesa. Credo che da un lato dobbiamo veramente fare attenzione a che ogni domenica sia veramente un momento sia di vero riposo, che di vera consacrazione al Signore.

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