venerdì 17 gennaio 2014


Esodo 19. Natale sul monte Horeb

15 dicembre 2013 alle ore 18.04
Per leggere il capitolo 19 dell'Esodo clicca qui: http://www.laparola.net/testo.php?versioni[]=C.E.I.&riferimento=Esodo19



Dopo un viaggio nel deserto di tre mesi gli ebrei guidati da Mosè sono arrivati finalmente presso il monte Sinai, o Horeb, il luogo in cui Dio sceglie di rivelarsi. Siamo giunti ad un punto cruciale del libro dell’Esodo, a suo modo unico nella Bibbia perché Dio si manifesta in modo speciale a tutto il popolo, con segni e caratteri che non troviamo altrove.  Dopo essere stati liberati, dopo essere stati messi alla prova nel deserto, gli ebrei incontrano il Dio creatore della loro vita ed autore della loro liberazione.
            In questo periodo dell’anno si festeggia il Natale, periodo storicamente non confermato, ma convenzionalmente accettato in cui si ricorda che Dio si è fatto uomo nella persona di Gesù Cristo. Credo sia molto importante per capire la portata dell’incarnazione di Dio in un uomo, avere presente tutto quelle che c’è stato prima di questa incarnazione; per mettere a confronto con la vicinanza di Dio l’opportuna distanza che l’ha preceduta. “Avvicineremo” questo passo con tre diversi “avvicinamenti” del popolo al monte, ed a Dio stesso, e valuteremo come questi tre avvicinamenti possano essere adatti a chiunque vuole credere nel Dio che ancora oggi crea, libera e salva.
  1. 1.      Avvicinarsi con impegno
Dio ha fatto molto per questo popolo che arriva stanco ma libero al monte Sinai ed usa una bellissima immagine: le ali dell’aquila. Il Signore, come una madre premurosa, ha trasportato il suo popolo in un cammino di libertà e prima di esporgli una legge che regolerà sia la fede che la vita civile, vuole un incontro diretto con lui. Prima ancora di esporre una serie di regole chiede quindi un impegno personale: ubbidire alla sua voce e rispettare il suo patto (v.5). Non si tratta qui di porre delle condizioni che permettano di diventare il popolo di Dio. Israele è già il popolo di Dio, il Signore lo ha scelto per grazia e per amore. Smettere di ubbidire alla voce di Dio e non rispettare il patto significherà snaturarsi, rovinare la libertà regalata e mancare la grande missione: quello di essere il “tesoro”, “una nazione santa” ed “un popolo di sacerdoti.” Queste tre caratteristiche vanno ben sottolineate: il tesoro particolare riguarda proprio il rapporto diretto con Dio, di amicizia e fiducia; la “nazione santa” è una nazione che si percepisce e dimostra come diversa perché ha una missione speciale; il “popolo di sacerdoti” è tale perché ha la missione immensa e meravigliosa di portare la parola di Dio al resto dei popoli del mondo, non in quanto superiore, anzi, in quanto servitore. E’ un popolo che non è destinato a regnare sugli altri, ma a servire… Per tenere fede a questo mandato triplice ci vuole un impegno serio e deciso davanti a Dio, un sì che confermi l’identità che Dio ha già dato.
            Il Nuovo Testamento ci fa capire che questo mandato non è ristretto ad Israele, ma è stato direttamente ripreso dall’apostolo Pietro nella sua lettera e riferito a dei credenti che abitavano in Ponto e in Galazia: “ma voi siete una stirpe eletta, una sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato perché proclamiate la virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (I Pietro 2,9). Queste importanti missioni sono ancora le stesse per chi oggi vuole dirsi credente. Il mandato è grande e non consente leggerezza. Ancora oggi ci avviciniamo a Dio, ma quel Dio che ci chiama ci chiede un impegno preciso, un rispetto del suo patto che vuole stringere con noi, un sì alla sua persona, alla sua missione, alla sua verità. Siamo pronti a pronunciarlo, come il popolo ha risposto di sì?
  1. 2.      Avvicinarsi con fede (9 ; 16-20)
Prima di dare una risposta a questa domanda avanziamo nella lettura. Il Signore vuole che tutto il popolo ascolti la sua voce mentre parla con Mosè, ma senza vederlo. Ci dice esplicitamente che questo serve a fare sì che il popolo abbia fede in Mosè. Non certo per farne un Dio, ma perché il popolo creda che egli è veramente il profeta che Dio ha inviato per rivelarsi. Il verso 9, nella sua brevità, credo che condensi in poche righe, ed in forma narrativa, l’essenza della fede. Ci si deve affidare a qualcuno. In questo caso Mosè, che è qui una chiara prefigurazione di Gesù, non a caso presentato dal vangelo di Matteo come il nuovo Mosè. In questo affidarsi c’è un qualcosa che sfugge, qualcosa che implica un passo di “fede”, di credere in qualcosa che non si vede, anche se si sente. Ora ogni israelita sapeva bene che non si può vedere Dio e sopravvivere, perché Dio è talmente perfetto che la sua luce metterebbe allo scoperto ogni nostra bruttura. Tuttavia il fatto di non poterlo vedere ha anche qualcosa che fa appello alla libertà: vedere Dio significherebbe essere obbligati a credergli, non più essere liberi di credergli. Basta allora l’udito che è un indizio sufficiente ma non necessario per credere che qualcuno di straordinario sta parlando a Mosè.
Nel nuovo testamento il vangelo di Matteo, al capitolo 17 ci parla della trasfigurazione di Gesù, davanti Pietro, Giacomo e Giovanni. Anche questa avviene su un monte, ed anche qui salgono solo alcuni dei discepoli. Anche loro non vedono Dio direttamente, ma odono una voce che incoraggia a credere nel Figlio in cui il padre si è compiaciuto. Gesù è trasfigurato, quindi ha qualcosa di speciale, eppure non compare in quanto Padre, ma in quanto Figlio, Dio fatto uomo.
Oggi siamo confrontati a questa stessa sfida. Siamo pronti a prenderci un impegno forte nei confronti di Dio? Non aspettiamoci di avere prove schiaccianti quasi si trattasse di vederlo, di poterlo toccare. La vita sarà piena di voci che vengono da dietro le nuvole, di segnali che indicano fortemente che…, ma che non ci “costringono” a credere, come se si trattasse di accettare che vediamo le nostre mani o le persone che abbiamo intorno. Il Signore ci chiama sul suo monte per pronunciare un sì che scaturisce dalla nostra fede, dal nostro affidarci completamente a Dio, al fatto che quel Gesù venuto qui 2000 anni fa era veramente suo figlio, il profeta colui che solo libera, salva e fa vivere.
  1. 3.      Avvicinarsi con delicatezza e santificazione (10-15; 21-24)
Gli accorgimenti da prendere per avvicinarsi al monte e le punizioni inflitte a chi tocchi il monte o a chi si fa irruzione possono stupire. Eppure mai capiremo il Natale, la vicinanza completa di Dio all’umanità, senza questa premessa. La grandezza del Natale, del Dio che si fa uomo, sta nel fatto che Dio si avvicina ad un uomo che vuole stargli lontano e che ha scelto con i suoi peccati di stargli lontano. Perché il popolo non deve fare irruzione e deve avvicinarsi con delicatezza? Perché Dio è Dio ed avvicinarsi a lui significa rendersi conto che ci si avvicina a quel che esiste di più alto, di più sublime, di più puro sia possibile pensare ed immaginare. Avvicinarvisi ritenendosi superiori, con leggerezza o senza consapevolezza dei propri peccati significherebbe capire male chi si ha davanti. Molta attenzione viene posta ai rituali di santificazione, che erano puramente simbolici. Ma tutto questo aveva il semplice scopo non di allontanare, ma di responsabilizzare il popolo: popolo conosci te stesso. Sappi che non sei perfetto, sappi che hai dubitato, hai criticato, ha cercato di tornare in Egitto. Ma ora il Signore ti chiama ad avvicinarti.
Capiamo veramente il significato del Natale oggi? Dio si è avvicinato agli uomini facendosi uomo, ma noi ci rendiamo conto di cosa significhi che Gesù abbia accettato di prendere parte ad un’umanità che lo ha rifiutato ed ucciso?
Il Signore ha pensato a dei rituali di santificazioni validi anche per noi. Ha pensato di immolare suo Figlio Gesù Cristo proprio perché anche noi possiamo stare alla sua presenza senza paura del nostro peccato. L’apocalisse offre una bellissima immagine che descrive proprio questa situazione: “Poi uno degli anziani mi rivolse la parola dicendomi: Chi sono queste persone vestite di bianco e da dove sono venute? Io gli risposi: “Signor mio, tu lo sai”. Ed egli mi disse: “Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione. Essi hanno lavato le loro vesti e le hanno imbiancate nel sangue dell’Agnello”.
Il Signore ancora oggi ci chiama ad avvicinarci a lui, forse non su montagne fisiche, ma su quelle montagne spirituali che si oppongono tra noi e lui e che ce lo fanno sembrare troppo alto. Ci chiama a santificarci lavando le nostre versi nel sangue di Gesù, quel sangue versato per i nostri peccati che solo ci dà salvezza, cioè possibilità di stare davanti a Dio. Che questo Natale sia un momento di vicinanza reale, non rituale. Che sia un Natale di santificazione, non di consumi. Che sia un Natale che risveglia la nostra fede.  

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