mercoledì 22 ottobre 2014

Dio in campeggio

Esodo 25
1 Il Signore disse a Mosè: 2 «Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un'offerta. La raccoglierete da chiunque sia generoso di cuore. 3 Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contributo: oro, argento e rame, 4 tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, 5 pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, 6 olio per il candelabro, balsami per unguenti e per l'incenso aromatico, 7 pietre di ònice e pietre da incastonare nell'efod e nel pettorale. 8 Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro. 9 Eseguirete ogni cosa secondo quanto ti mostrerò, secondo il modello della Dimora e il modello di tutti i suoi arredi.

I titoli, si sa, servono ad attirare i lettori, e sarà opportuno dire subito che Dio non va in campeggio, oppure che ci va ma non più che in altri luoghi. Quello che però ci colpisce nel libro dell’Esodo è che la parte relativa al “Tabernacolo” – e il tabernacolo è un specie di tenda da montare e smontare come quelle che si usano in campeggio – occupa circa un terzo del libro! I capitoli 25-31 e 35-40, cioè 13 capitoli su 40 parlano proprio di questa tenda mobile. Come lettori moderni che non hanno neppure mai visto un tabernacolo dobbiamo interrogarci su questa importanza, capirne il perché e scoprire se è tale anche per noi.

1. Offrire di cuore.
Quando il Signore parla a Mosè all’inizio di questo capitolo, prima ancora di pronunciare la parola “santuario” o “tabernacolo” parla di “offerta” (v.2). Dunque prima ancora di capire cosa sia il tabernacolo, e pensando semplicemente che è un qualcosa che riguarda la presenza di Dio, possiamo dire che è importante perché fa parte di un’offerta che Dio chiede al popolo di fare.
Ma tipo di offerta deve essere per essere accettata? Ha due caratteristiche: deve essere fatta con il cuore, e deve essere fatta di certi metalli, certe stoffe, certe pelli, certi tipi di olio e di pietre. Potrebbe sembrare una contraddizioni quella di chiedere la spontaneità ed il coinvolgimento e al contempo porre dei limiti sul tipo di offerta: chi offre col cuore, potrebbe pensare di offrire quello che gli pare a lui… In realtà le indicazioni servono per evitare che il donatore creda sia che il dare di per sé possa piacere a Dio, sia che faccia un’offerta priva di valore, ingannandosi. Chi dà con tutto il cuore, non dà oggetti di scarso valore.  E qui non siamo in un contesto in cui sono presenti classi sociali e poveri tra le persone del popolo, anzi, ricordiamo che uscendo dall’Egitto gli ebrei hanno preso agli egiziani i loro gioielli. La prima cosa che anche noi moderni possiamo imparare dal tabernacolo è che siamo chiamati a dare, anche materialmente a Dio, per il funzionamento di chiese, opere missioni. In questo dare Dio ci ricorda che dobbiamo metterci il cuore, sentire fino in fondo i progetti per cui diamo; al contempo ci esorta a non dare gli scarti o le cose di poco valore, ma cose preziose come i metalli elencati. Credo che l’apostolo Paolo, quando esortava i Corinzi a donare, seguisse proprio questo spirito: “Dia ciascuno come ha deliberato in cuor suo: non di forza, né di malavoglia, perché Dio ama un donatore gioioso”. (2 Cor 9,7)

2. Una nuova concezione della presenza di Dio
Il tabernacolo è quindi il risultato di un comandamento e di un’offerta, ma dobbiamo ancora capire perché è così importante. Potremmo dire che segna un vero e proprio cambiamento della presenza di Dio in mezzo al popolo. Nel corso degli anni Dio ha scelto di fare avvertire la sua presenza in modi diversi, ed oggi è sicuramente diverso da come era al tempo di quel tabernacolo; nondimeno il tabernacolo rappresenta una tappa importante che va in una direzione a cui siamo arrivati, forse, solo oggi.
Innanzi tutto la presenza di Dio non è più occasionale, ma diventa costante. Finora abbiamo visto Dio che parla o con angeli, o con apparizioni, o ancora dal monte in momenti precisi e solo con Mosè. Da adesso invece il tabernacolo rappresenterà il luogo in cui si incontra Dio, e sarà costantemente presente con il popolo. Sarà inoltre più vicino e non più osservabile a distanza sulla vetta della montagna. Inoltre sarà mobile, cioè si sposterà assieme al popolo camminando con lui. Tornerà a diventare fissa quando il popolo si stabilirà nella terra promessa, e quindi si fermerà, ma per ora segue il popolo nel suo cammino.
Possiamo dire che il tabernacolo, pur essendo un’istituzione transitoria, tra le altre cose ricca di valore simbolico, va in quella direzione per cui Dio si manifesta come sempre più vicino agli uomini, chiamandoli ad un incontro che avviene nell’interiore del loro cuore. Questo però avviene per tappe: il fatto di essere ora costante, vicino ed in cammino con Dio, è un passo avanti, che prefigura le tappe successive. La prossima sarà il santuario, che è molto simile solo che è stabile. La successiva è Gesù stesso che dice di essere il tempio (disfate questo tempio in tre giorni e lo rifarò), seguita da quella tappa in cui Dio invia il suo spirito in noi, rendendoci tempio dello Spirito Santo:
“Ho ancora molte cose da dirvi ma non sono ancora a portata vostra. Quando sarà venuto lui però, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito e vi annuncerà le cose a venire” (Giov 16,12-14).
“ Non sapete voi che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo” (I Cor 6,19).
Tutto ciò fa parte della storia della rivelazione di Dio, del mondo in cui lui sceglie di farsi percepire dagli uomini. Noi guardando a distanza il tabernacolo che rappresenta la presenza del Signore, possiamo solo dire grazie ad un Dio che si è progressivamente avvicinato a noi, fino ad essere in chi lo riconosce come Signore, rendendo inutile la presenza di santuari e templi, che pure sono stati una tappa importante di questo cammino di interiorizzazione del divino nell’uomo.

3. Un modello conforme.
Nella parte conclusiva del passo leggiamo che il tabernacolo deve essere conferme ad un certo modello. La descrizione è in effetti molto lunga, come anche nella parte finale del libro è molto lunga la descrizione della costruzione. Ci si potrebbe chiedere perché tanti dettagli ed istruzioni su questa tenda che invece potrebbe lasciare uno spazio più ampio alla creatività umana… Forse però proprio l’osservazione della creatività umana nei vari templi costruiti in altre religioni ci fa vedere che facilmente l’uomo tende all’antropomorfismo, cioè a farsi un dio a propria immagine e somiglianza, con statue, immagini ed altro, che finisce per sminuire Dio ed esaltare l’uomo. Probabilmente dunque tanta precisione ed abbondanza di dettagli viene dal fatto che Dio vuole mettere alla prova la fedeltà del popolo, chiamato a costruire con molta attenzione, secondo un modello preciso, e non arbitrariamente dando luogo a delle mostruosità, come accadrà con il vitello d’oro che infatti è frutto della libera iniziativa e creatività del popolo.
Questo però mi fa pensare ancora una volta che la presenza di Dio è qualcosa di prezioso, di accurato, e che forse è bene che sottostia ad alcune regole. Gesù non ci ha lasciato regole molto precise, se non quelle dell’umiltà, della segretezza del nostro incontro con Dio, della sua interiorità. Credo che siamo liberi di scegliere come ritagliare il nostro tempo con Dio, purché cerchiamo di essere precisi e minuziosi: cerchiamo ogni giorno, proprio come se seguissimo un modello con delle precise regole, di passare del tempo con Dio, magari da darci anche delle scadenze precise, come la lettura di un certo numero di passi, o una lettura panoramica della Bibbia – che non può che sottostare a regole – o ancora di libri. Non credo sia una forzatura paragonare il santuario e la sua precisione, all’attenzione che dobbiamo mettere anche noi oggi a costruire il nostro rapporto con Dio. Perché se viviamo in quella tappa in cui percepiamo Dio in modo più interiore, non possiamo negare che la vita svia, ha le sue pretese e sovrasta facilmente le parole che Dio ci vorrebbe dire. Allora, senza costruire noi tabernacoli concreti, ripensiamo ad un tabernacolo personale, fatto di tempo, o azioni dedicate alla presenza di Dio che ci consenta di crescere di continuo nella fede, secondo il modello perfetto di Gesù Cristo.

Le pietre preziose


Esodo 24. Per leggere Esodo 24 clicca qui: http://www.laparola.net/testo.php?versioni[]=C.E.I.&riferimento=Esodo24

Adorare sul monte(1-4)
Questo titolo può sembrare comico: cosa c’entrano le pietre con questi avvenimenti dell’Antico Israele? Sostanzialmente poco, eppure il capitolo 24 dell’Esodo sembra scandito dalla presenza di tre tipi di pietre che sono in qualche modo correlate con gli avvenimenti. Il passo si apre con una specie di riassunto di tutto quello che deve accadere: una delegazione di rappresentanti del popolo è chiamata ad avvicinarsi a Dio, ma infine solo Mosè procederà fino in cima al monte. Lo scopo di questo avvicinamento è adorare. L’adorazione è un tema importante di tutto l’Esodo e già altre volte abbiamo visto il popolo adorare (4,31; 12,27; 15, 1-21; 18, 12) E questo ci serve in via introduttiva a ricordare un postulato del libro dell’Esodo: c’è esodo e liberazione, ma questi non sono fini a se stessi: hanno come fine il potersi avvicinare a Dio per adorarlo, missione cruciale dell’esistenza, precondizione di una vera felicità.
  1.    12 pietre d’altare. (4-8)
Le prime pietre che incontriamo sono quelle che Mosè prende per costruire un altare. Su questo sparge del sangue, legge il libro dell’alleanza che ha scritto, ed asperge del resto del sangue il popolo. Troviamo più elementi simbolici in questo breve passo che vale la pena illustrare: il 12 è un numero che rappresenta l’insieme di Israele, le 12 tribù e qui rappresenta proprio l’insieme della chiamata rivolta alla tribù di Israele; la lettura del libro, e la risposta del popolo che si impegna, sono un momento di responsabilizzazione e riconoscimento che la legge viene da YHWH, ed è per questo che è buona. Infine il sacrificio con l’aspersione del sangue rappresenta l’espiazione, cioè l’idea che il peccato degli umani è simbolicamente placato con il versamento del sangue di una vittima animale – innocente.
                Se noi fossimo lì, il messaggio che dovremmo recepire dovrebbe essere qualcosa di questo tipo: il Signore ha operato una salvezza che non riguarda solo me, ma la totalità del mio popolo; mi impegno a seguire i suoi comandamenti; capisco che non sono perfetto e per le mie mancanze offrirò sacrifici.
                Oggi noi leggendo queste parole alla luce di quanto Gesù nel Nuovo Testamento ha operato recepiamo un messaggio la cui portata è ancora più grande. Ed il tipo di rito ci fa pensare ad un contesto che non è poi diverso da quello che noi sperimentiamo quando la domenica consumiamo insieme la cena del Signore, che ha ripreso parole molto simili. Dio non ha lasciato nel Nuovo Testamento molti simboli, tuttavia ha lasciato una cena. Prendendola e pensando che i primi  a prenderla erano 12, pensiamo proprio alla totalità del popolo salvato, che non è più il singolo popolo di Israele, ma che è un grande popolo formato da chiunque riconosce la forza del sacrificio di Cristo. Questo 12 si è moltiplicato per 12 ed ancora all’infinito per chiamare ad un impegno deciso l’umanità. Oggi, prendendo la cena del Signore si pronuncia ugualmente una sorta di impegno. Se non la si prende è perché si percepisce che questo impegno non è ancora chiaro, non è ancora definitivo. Credo che ogni volta che prendiamo la cena del Signore dobbiamo ripensare a quale sia la nostra fedeltà rispetto ai comandamenti di Dio. Ma subito dopo possiamo pensare a quel “sangue che è sparso per molti”, che ha permesso un NUOVO PATTO, nel sangue di Gesù. Capiamo allora che Dio non ci accetta in base alla misura della nostra fedeltà o al rispetto dei comandamenti: ci accetta perché ha versato il sangue di suo figlio Gesù sulla croce, per perdonare i nostri peccati. Le 12 pietre, sono allora il simbolo di un’umanità rinnovata dal sangue, e chiamata ad un nuovo impegno con il Signore.

  1.   La pietra trasparente di zaffiro. Dio si può vedere
 E’ nuovamente una pietra a rappresentare l’incontro con Dio: uno zaffiro trasparente. Si tratta di una pietra che tende al colore blu e che è piuttosto trasparente e su questa viene detto che Dio poggia i suoi piedi. Aronne, 70 anziani, due figli di Aronne Nadab e Abiuh e Mosè stesso sono chiamati ad avvicinarsi. Comprendiamo il senso di questa scelta in una funzione ed in un ruolo che ognuno di questi aveva all’interno di un popolo che non è una massa piatta ed uniforme, ma che deve crescere e maturare. Questi vivono un’esperienza straordinaria: vedono Dio, sopravvivono, mangiano e bevono. Credo che questa scena abbia un fortissimo valore anticipatorio: è lì per dire che un giorno sarà così per tutti, e che verrà un tempo in cui chi crede è sacerdote ed è degno di vedere Dio. Allora oggi dobbiamo gridare che questo tempo della presenza trasparente, senza veli, di Dio è arrivata e che chiunque è chiamato a presentarsi davanti a lui. Ma non solo: lo stare in presenza di Dio non è un’esperienza puramente trascendente, fatta di rarefazione e spiritualità: si mangia e si beve! La convivialità assume tutto il suo valore, e fa assumere ai beni della creazione, cibi e bevande, tutta la loro carica spirituale. Incontrare Dio è un’esperienza collettiva, conviviale in cui si vede l’Altissimo ed in sua presenza si mangia e si beve. Forse non c’è niente di più spirituale di fare delle cose molto ordinarie e comuni, come una cena, ma con la certezza della presenza di Dio. Chi di noi non apprezza il piacere di ritrovarsi a cena con amici? Quando la domenica prendiamo la cena del Signore siamo sempre condizionati da una qualche ritualità che culturalmente ci influenza: ma Gesù ha scelto di istituire un momento simbolico come quello della cena, perché lo spirito della cena è proprio quello di ricreare un incontro amichevole, conviviale, e trasparente con il Dio della vita.

  1.  Le pietre della legge.
Infine abbiamo le pietre della legge che Dio dà a Mosè chiamandolo in cima al monte dove lui solo si reca. La funzione che hanno è anch’essa molto adeguata al materiale di cui sono costituite: se è vero che le cose scritte rimangono mentre quelle solo dette possono volare via, appare ancora più forte la permanenza di cose scritte sulla pietra, che per essere cancellate richiedono cataclismi o rotture e sono quindi ben più solide della carta o dei supporti elettronici di cui ci serviamo oggi. Proprio questa permanenza della Parola di Dio mi pare sottolineata dal formato scelto da Dio per conservarla. E’ vero che in seguito la Bibbia sarà scritta e tramandata in rotoli, ma l’idea di mettere su pietra dei comandamenti rinforza la loro solidità. Vagheggiando un po’ intorno a questa forma, potremmo pensare a quanto sia importante oggi ricordare che questa Parola contiene principi che non passano, che sono validi sempre, che permangono e che propongono ad ogni uomo una chiara esposizione della volontà di Dio.
                Tuttavia, questa immagine della legge scritta su tavole di pietra è stata ripresa nel Nuovo Testamento dall’apostolo Paolo in funzione apparentemente negativa: “La nostra lettera, scritta nei nostri cuori, siete voi, lettera conosciuta e letta da tutti gli uomini; è noto che voi siete una lettera di Cristo scritta non con inchiostro, ma con lo spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne.” (II Cor 3, 2-3). Non credo che Paolo volesse sminuire il valore della pietra: piuttosto voleva dire che quelle leggi scritte nella pietra si devono vedere nella vita, quindi essere impresse in cuori di carne che le rendono vive.
                Mosè che rimane in presenza di Dio 40 giorni e 40 notti, e Paolo che ci ricorda il modo in cui la legge di pietra deve essere assimilata dai cuori, ci portano a fare una considerazione fondamentale sulla legge: la legge può essere bella, duratura, profondamente morale, umanamente ineccepibile: ma non serve a niente finché rimane sulle tavole. Mosè è rimasto lì 40 giorni e 40 notti per parlare con Dio e penetrare a fondo i principi della legge; Paolo ci esorta a viverli per diventare delle specie di lettere da cui il fine della legge traspare. Quello di renderci sempre più simili a Dio, e a farcelo adorare di continuo. AMEN

Verità senza condizioni

Esodo 23: senza condizioni.

  1.        Verità e doveri senza condizioni.
1 Non spargerai false dicerie;
non presterai mano al colpevole per essere testimone in favore di un'ingiustizia.

2 Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso la maggioranza, per falsare la giustizia.
3 Non favorirai nemmeno il debole nel suo processo.
4 Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre.
5 Quando vedrai l'asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo.

6 Non farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo.
7 Ti terrai lontano da parola menzognera.

Non far morire l'innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole.
8 Non accetterai doni, perché il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti.
9 Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d'Egitto.

Questo primo gruppo di norme potrebbe essere accomunato da un’idea: “Non farti condizionare da niente”. Che si tratti di stabilire il torto e la ragione in un processo o che si tratti di aiutare qualcuno l’invito di questi testi è ad agire senza condizionamenti esterni. In ogni tentativo di stabilire la giustizia o di aiutare qualcuno ci sono dei condizionamenti. E’ facile lasciarsi andare a maldicenza o a parole che non riportano l’esatta verità contro un nemico; è facile schierarsi dalla parte della maggioranza, perché è più comodo; è facile anche farsi influenzare da una certa categoria, perché più debole e quindi giustamente oggetto di maggior considerazione. E’ facile anche farsi influenzare da doni o favori, pratica che nell’Italia di tangentopoli abbiamo visto imperversare. E’ facile anche farsi influenzare al contrario da preconcetti su stranieri. Ugualmente, è facile farsi influenzare dalla rabbia che si ha contro un nemico per venire meno ai doveri di assistenza che si hanno nei suoi confronti.
Questo gruppo di versi mi ha fatto venire in mente un passo importante della lettera ai Romani in cui l’apostolo Paolo, con altre parole, esorta a non lasciarsi condizionare:
“Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la buona gradita e perfetta volontà di Dio. (Rom 12,2).
Il popolo liberato e rigenerato da Dio deve tenere duro per mantenere la sua libertà, rinunciando a compromessi con quelle pulsioni dell’animo umano verso l’accomodamento, o verso la via più facile. Partendo dal presupposto che la cultura in cui viviamo ci influenza, assieme alla nostra estrazione sociale, alla nostra famiglia, alla nostra formazione, dobbiamo leggere in questi passi un forte segnale d’allarme che di ricorda che la nostra mente va rinnovata. Non basta nasconderci dietro la nostra sincerità, la nostra buona fede o la nostra educazione, sia essa o meno evangelica. La parola di Dio ci chiama ad uno sforzo sovrannaturale di oggettività. Sicuramente non siamo giudici, e quindi non siamo chiamati ad emettere sentenze. Tuttavia, potremmo essere chiamati a fare da testimoni, e nella quotidianità ci capita di continuo di valutare situazioni in cui c’è chi ha torto e chi ha ragione. Capita in famiglia nelle liti tra due fratelli o sorelle, capita nei luoghi di lavoro, capita in chiesa… Dobbiamo allora chiederci di continuo: cosa guida il nostro giudizio?
    2. Il valore del riposo.

      10 Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, 11 ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà divorato dalle bestie della campagna. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto.
      12 Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno farai riposo, perché possano goder quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero.

      Se nel decalogo si parla di un giorno di riposo speciale, quello del sabato per santificare il nome del Signore, vediamo che in questo passo viene aggiunto un riposo ogni sette anni che permetta riposo alla terra e beneficio ai poveri, ed alle bestie selvatiche. Nel commentare il quarto comandamento abbiamo rilevato di quanto sia importante trovare un momento da consacrare al Signore, e quindi l’esigenza di una giornata in cui non si lavora ma si pensa soprattutto a Dio. In queste norme viene messo in valore il senso di questo riposo ed è sorprendente vedere che Dio sembra preoccuparsi di cose che noi spesso trascuriamo: terra, poveri ed animali. Nel salmo 8, il salmista si domanda chi sia l’uomo perché il Signore debba preoccuparsi di lui, ma in questo comandamento vediamo che Dio non solo si preoccupa degli uomini: ha una grande attenzione per tutti i componenti della creazione, terra piante ed animali compresi. Se nei nostri tempi alcuni movimenti animalisti hanno esagerato l’attenzione posta all’ambiente finendo per divinizzarlo, non dobbiamo aver paura di affermare che la Bibbia ha una vera e propria teologia degli animali reperibile in diversi passi come questo, che non è l’unico. Gli animali sono oggetto della grazia di Dio e Dio vuole che al grande riposo contemplativo prendano parte anche loro. Non conosco molti movimenti cristiani che pongano attenzione agli animali, e ho scoperto una confessione di peccato nei confronti degli animali fatta dalle chiese evangeliche tedesche a Clamberg nel 1988. Amare gli animali significa amare il creato. Ciò non impone immediatamente il vegetarianesimo, e la Bibbia che pure non prevedeva il consumo di carne prima del peccato, permette sia che se ne mangino, sia che vengano uccisi in sacrifici. Tuttavia, mai viene permessa della violenza gratuita sugli animali, e l’attenzione posta agli animali deve fare riflettere gli uomini sul fatto che ci sono limiti: limiti al lavoro e limiti allo sfruttamento del creato. Poco più avanti si vieta addirittura di cuocere un capretto nel latte di sua madre, quasi a far capire che l’animale benché morto, non è un semplice oggetto con cui fare quello che vogliamo, a un figlio che è nato da una madre. Non ci si deve permettere di sfruttare qualsiasi entità che sembri più facilmente dominabile o subordinata: animali, poveri e schiavi. La Bibbia ricorda al ricco abbiente, al possessore di schiavi, campi, bestiame e de denaro che nessuno di noi è creatore e che tutto appartiene a Dio e che il lavoro nobilitante e degno diventa idolatria e dipendenza senza il riposo ed il riconoscimento di un limite.
                      Oggi il lavoro manca ed il problema della disoccupazione si accompagna a quello della sovraoccupazione. Ci sarebbe da chiedersi se forse questo squilibrio nel mondo della produzione e del lavoro non derivi anche dal fatto che si voglia produrre troppo, ottimizzando troppo e violando dei ritmi naturali che la terra, gli animali e l’uomo hanno…

        3. Il valore del ricordo. Ricordarsi di Dio in ogni circostanza. Liberazione, raccolta, nascite.
          13 Farete attenzione a quanto vi ho detto: non pronunciate il nome di altri dèi; non si senta sulla tua bocca!

          14 Tre volte all'anno farai festa in mio onore:
          15 Osserverai la festa degli azzimi: mangerai azzimi durante sette giorni, come ti ho ordinato, nella ricorrenza del mese di Abib, perché in esso sei uscito dall'Egitto.
          Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote.
          16 Osserverai la festa della mietitura, delle primizie dei tuoi lavori, di ciò che semini nel campo; la festa del raccolto, al termine dell'anno, quando raccoglierai il frutto dei tuoi lavori nei campi.
          17 Tre volte all'anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio.

          18 Non offrirai con pane lievitato il sangue del sacrificio in mio onore e il grasso della vittima per la mia festa non starà fino al mattino.
          19 Il meglio delle primizie del tuo suolo lo porterai alla casa del Signore, tuo Dio.
          Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre.

          Noi evangelici “liberi” abbiamo una certa ritrosia rispetto a tutto ciò che è liturgico. Non riconosciamo feste particolari perché non ne troviamo nel Nuovo Testamento e perché non ce ne sono di “comandate”, e insistiamo sull’importanza di vivere ogni giorno la festa della profonda comunione con Dio, nostro salvatore. Qualcuno ha detto però un qualcosa di provocatorio ed utile: “Pregare quando si vuole è bene, pregare ad ore fisse è meglio”… Tanto per dire che è bene fare qualcosa quanto si sente di farlo, ma è anche meglio imporsi qualche scadenza per leggere la parola, per pregare o per incontrarsi, altrimenti la nostra indole poco riconoscente finisce per trascurare la vita spirituale. Questo gruppo di insegnamenti che ricordano l’importanza di ricordarsi di Dio in momenti significativi della vita quotidiana mi fa scattare immediatamente alcune domande, che penso bastino per commentare ed attualizzare il passo:
          -          Chi si è convertito dando a Dio la propria vita, gli viene mai mente di fare una piccola festa familiare o anche in grande per ricordare del giorno in cui il Signore lo ha chiamato?
          -          Ci viene mai in mente di indire una piccola riunione di ringraziamento familiare quando mensilmente riceviamo lo stipendio, o quando a dicembre arriva la tredicesima ? Chi ha un lavoro in un mondo in cui ce n’è così poco in quanto mal distribuito, ci viene mai in mente di ringraziare per quel banale versamento che ci consente di vivere e di nutrirci?
          -          Visto che festeggiamo i compleanni dei nostri figli, ci viene mai in mente di fare delle riunioni familiari di preghiera per ringraziare Dio di averceli dati e per pregare specialmente per loro?
          -          E infine: ci viene mai in mente che tutto ciò va in qualche modo “restituito” a Dio dandogli il primo posto nella nostra vita?

            4. Non farti condizionare

              20 Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato. 21 Abbi rispetto della sua presenza, ascolta la sua voce e non ribellarti a lui; egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui. 22 Se tu ascolti la sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l'avversario dei tuoi avversari.
              23 Quando il mio angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l'Amorreo, l'Hittita, il Perizzita, il Cananeo, l'Eveo e il Gebuseo e io li distruggerò, 24 tu non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e dovrai frantumare le loro stele.
              25 Voi servirete al Signore, vostro Dio. Egli benedirà il tuo pane e la tua acqua. Terrò lontana da te la malattia. 26 Non vi sarà nel tuo paese donna che abortisca o che sia sterile. Ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni.
              27 Manderò il mio terrore davanti a te e metterò in rotta ogni popolo in mezzo al quale entrerai; farò voltar le spalle a tutti i tuoi nemici davanti a te.
              28 Manderò i calabroni davanti a te ed essi scacceranno dalla tua presenza l'Eveo, il Cananeo e l'Hittita. 29 Non li scaccerò dalla tua presenza in un solo anno, perché il paese non resti deserto e le bestie selvatiche si moltiplichino contro di te. 30 A poco a poco li scaccerò dalla tua presenza, finché avrai tanti figli da occupare il paese.
              31 Stabilirò il tuo confine dal Mare Rosso fino al mare dei Filistei e dal deserto fino al fiume, perché ti consegnerò in mano gli abitanti del paese e li scaccerò dalla tua presenza. 32 Ma tu non farai alleanza con loro e con i loro dèi; 33 essi non abiteranno più nel tuo paese, altrimenti ti farebbero peccare contro di me, perché tu serviresti i loro dèi e ciò diventerebbe una trappola per te».

              Il passo è cominciato con un invito a non farsi condizionare nei giudizi di ordine morale, e si conclude con un esortazione molto simile. Il popolo entrerà in un paese in cui vivono popoli lontani dalla parola di Dio. Dio ha scelto questo modo critico, problematico di correggere l’umanità che prevede anche il giudizio anticipato di molti popoli che responsabilmente hanno optato di non schierarsi con Jahve. Israele, scelto per portare una parola di libertà non deve farsi condizionare. Ha da Dio una grazia speciale, ma questa grazia non è a buon mercato: implica da loro una continua fedeltà, che consiste nel riconoscere in Javhe l’unico vero Dio.
              Questo passo non legittima certamente guerre ed operazioni militari perché è circoscritto a quel contesto di preparazione di una terra santa per portare una buona notizia e lì finisce. Noi ne cogliamo però il profondo senso spirituale ripetendo quello che diceva Paolo nel versetto iniziale: è facile essere influenzati da molte idee, ma la fede deve trovare la sua ispirazione nella Parola di Dio. Per le scelte della vita, per l’educazione dei figli, per capire cosa fare l’unico riferimento valido è una fedeltà condizionata a quel Dio biblico che si è rivelato in Gesù Cristo.

              Esodo 22: Persone o cose?


              Per leggere Esodo 22, clicca qui: http://www.laparola.net/testo.php?versioni[]=C.E.I.&riferimento=Esodo22

              Continua il nostro viaggio tra le leggi antiche della parte centrale dell’Esodo, ed anche oggi, dietro leggi peculiari e piene di elementi non più presenti oggi, cogliamo principi di saggezza divina a cui possiamo ispirare la nostra condotta.
              1. 1.       Persone o cose? (1-15)
              Il primo gruppo di leggi, dal v.1 al 15 riguarda una casistica di furti, o di responsabilità inerenti al prestito di oggetti, animali o all’uso di proprietà. Qui viene affermato con forza un principio centrale: i beni materiali sono importanti, e rubarli comporta delle sanzioni; tuttavia le persone sono più importanti delle cose. Al di là dei singoli casi, ogni furto viene punito con un risarcimento che tiene conto della possibilità di provare o meno il fatto. Interessante il valore del giuramento davanti a Dio, che chiama Dio a testimone della propria innocenza e che ritroviamo anche oggi nelle formule un po’ stereotipate dei processi.
              L’insieme di queste leggi fa pensare a due verità di cui tenere conto ancora oggi, opposte ma entrambe valide: in primo luogo, l’uso di ogni bene comporta una responsabilità. I beni nostri e quelli degli altri sono preziosi, spesso – proprio in virtù del comandamento non rubare -  sono il frutto di quella nobile fatica che è il lavoro. Rubare è sbagliato ed è giusto che il furto venga punito. Tuttavia nessun bene è superiore ad un essere umano. Sembra una verità molto banale, ma uno sguardo alla cronaca di può fare notare quanto sia smentita: per le proprietà, il possesso di oggetto, i furti si commettono crimini, e siamo abituati a difendere con i denti ciò che abbiamo. Possiamo ricordare che Gesù disse: “a chi vuol litigare con te e prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello” (Matteo 5,40). Il furto, l’arroganza, la violenza indispettiscono e provocano altrettanta collera. Ma lo sforzo dell’amore che Gesù richiede consiste nel vedere dietro al sottrattore di beni la persona creata da Dio, che è più di un oggetto. Per questo nell’antico testamento la massima pena per un furto è la restituzione maggiorata, ma mai la vita.
              1. 2.       Dote e matrimonio (16-17)
              Lo si voglia o no, la donna israelita era considerata come una specie di proprietà prima di suo padre e poi di suo marito. Questo non la rendeva un oggetto, nel senso che sia in materia di eredità che di diritti umani, viene considerata in molte leggi alla pari del marito, tuttavia la sua esistenza è in qualche modo dipendente da quella di uomini. Questa legge pone un principio di responsabilità e serietà nei rapporti tra sessi. Si parla di un seduttore, quindi di qualcuno che probabilmente si avvicina ad una fanciulla vergine non con intenzioni serie cioè di matrimonio, ma puramente sessuali. Il nostro tempo, contraddistinto da una grande libertà in termini di rapporti tra persone, non deve certo cercare di ripristinare la dipendenza delle fanciulle dai propri genitori, ma può imparare che una gran serietà nei rapporti che riguardano la costruzione di un’intera vita, e la non superficialità delle relazioni è un principio su cui riflettere. Ancora una volta il passo ci fa riflettere sul fatto che gli umani sono persone che interagiscono, non cose che si prendono e lasciano liberamente.
              1. 3.       Tre cose gravi: magia, perversione, idolatria.
              Rispetto al gruppo precedente di leggi, tornano casi in cui si parla di punizione capitale. Abbiamo già visto che la pena di morte viene autorizzata nell’Antico Testamento, ma rivista nel nuovo (Giovanni 9), ma cerchiamo di capire la gravità di questi tre fatti. Per “strega” si intende qualcuno che con magie opera sulla realtà, come i magi d’Egitto facevano per imitare Mosè. Il fatto è grave perché la pratica della magia riporterebbe il popolo ad essere prigioniero dell’idea che per risolvere i problemi della vita ci si possa rifare a delle pratiche magiche, quindi a degli oggetti, anziché a Dio. Ugualmente l’idolatria è grave perché riporta immediatamente ad una forma di dipendenza da divinità finte, fatte di materia che non danno alcuna libertà. Gravissimo anche accoppiarsi con gli animali perché si tratta di sovvertire un rapporto creazionalmente definito: l’accoppiamento con animali può derivare o da un desiderio insaziabile di novità e questo è offensivo per gli animali che non sono fatti per la soddisfazione dei bisogni degli uomini, ma hanno una loro dignità; ma è anche degradante per l’essere umano che riduce il rapporto ad assoluta fisicità, trascurando la dimensione emotiva, affettiva e spirituale dell’atto di unione.
              Forse un elemento che accomuna questi tre peccati è proprio la loro attualità: un’indagine rivela una certa quantità di uomini politici che consulta i maghi per prendere le loro decisioni e che 4 italiani su 10 si recano dal mago. Ho letto anche di una notizia della nascita in Danimarca di “bordelli animali” , anche se non si capisce che è una bufala. Inutile sottolineare la profusione di falsa religione che accompagna la giustissima laicità. Nessuno si sognerebbe oggi di mettere a morte chi fa queste pratiche, tuttavia rendersi conto della loro gravità sarebbe un’iniezione di saggezza per il nostro mondo pseudo-laico, ed in verità molto religioso e superstizioso in forme nascoste e striscianti. Cogliamo allora da questi passi l’esortazione a condannare queste pratiche e ad allertare laddove scoprissimo che vengono in qualche modo praticate.
              1. 4.       I deboli (21-27) : e gridano a me, io udrò
              Straniero, vedova, orfano e povero sono categorie protette. Ma è bello vedere che in questo passo godono di una protezione speciale, non solo giuridica: viene detto che hanno un canale privilegiato di comunicazione con Dio  che punirà chi li opprime. Dopo una serie di norme abbastanza circostanziate, il codice dell’alleanza punta i riflettori sulla parte debole del suo popolo ed enuncia un principio, che è quello che il Signore è dalla loro parte. Non c’è quindi nessuna legge, ma una specie di imperativo morale che dice che vanno rispettati. Si scrivono molti trattati di economia e di sociologia, ma ci si potrebbe chiedere se molti mali del mondo non derivino proprio da questo: molte ricchezze sono costruite sulle spalle di categorie di deboli oppresse e vessate. E’ una verità sia nei rapporti tra nord e sud del mondo che tra persone ricche e povere all’interno di uno stesso stato, e la crisi ci insegna che la forbice delle differenze aumenta. Non sarà che tanti mali vengono proprio dal fatto che Dio è arrabbiato di tutto ciò?
              1. 5.       Dio al di sopra di tutto.
              Il capitolo è iniziato con delle norme sul furto ed abbiamo detto che queste insegnano che le persone sono più importanti delle cose. Si conclude adesso con un’ulteriore sottolineatura: non solo le cose stanno sotto le persone, ma la realtà funziona bene se postuliamo che Dio sta al di sopra di tutto ciò che c’è in essa. I raccolti, i figli, il bestiame e tutto ciò che per gli israeliti rappresentava un bene ed un valore non deve mai diventare più importante di Dio. Il meglio di ognuna di queste cose è per Dio, gli appartiene di diritto.
              Gesù, parlando del non preoccuparsi troppo del domani e di come sopravvivere disse: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte” (Mt 6, 33). Dopo la lettura di queste leggi disparate, che riguardano i beni materiali, gli esseri umani, e qualche grossa distorsione della realtà, c’è un principio che governa tutta la vita della fede: cerchiamo prima il suo regno e la sua giustizia. Cercare il regno significa considerare gli uomini più delle cose, risarcire danni, servire i deboli e non dare mai a niente più importanza dell’Altissimo. A Lui punta tutta la legge. AMEN

              Esodo 21: Schiavitù, pena di morte e rispetto della vita.


              Per leggere Esodo 21 clicca qui: http://www.laparola.net/testo.php?versioni[]=C.E.I.&riferimento=Esodo21



              Introduzione: una legge per cuori duri.
              La legge non è fine a se stessa e benché “piova dall’alto” cioè dell’alto del monte Sinai, si colloca in mezzo ad una storia – quella del popolo di Israele – ed in un mondo, quello della Mesopotamia antica. Leggere questi testi oggi, può lasciare molti di noi perplessi e portarci a chiederci perché un testo che riteniamo “Parola di Dio”, parli della schiavitù senza rimetterla in discussione, o perché ordini la pena capitale. Proprio per introdurci a questi testi così antichi credo sia opportuno guardarli con gli occhi con cui Gesù stesso suggeriva di guardarli: ricordiamo di quando i farisei gli chiedono perché Mosè abbia autorizzato il divorzio e Gesù risponde che era “per la durezza dei loro cuori, ma in principio non era così”. (Matteo 19,8) Si può dunque pensare che mentre il decalogo esprime proprio la volontà di Dio, queste “Procedure applicative”, o norme che abbiamo nei capitoli 20-23, fanno i conti con quella malattia umana che è la “durezza del cuore” (sclerocardia in greco!), e che quindi non rivelano la volontà di Dio in assoluto, ma sono un tentativo di ovviare ad una situazione umana nel modo meno dannoso possibile.
              1. 1.      La schiavitù esclude l’uguaglianza tra uomini?  Esodo 20:1-11
              I primi 11 versi di questo capitolo parlano di schiavitù e la prima riflessione che questo a me, come uomo moderno, suscita è perché questa venga accettata e regolamentata e non abolita. Probabilmente proprio perché la schiavitù era un istituto presente nelle società del tempo, per altro attestata in tutti i codici giuridici precedenti e coevi. Si potrebbe anche osservare che l’abolizione della schiavitù è veramente recente, avviene verso l’inizio dell’’800 grazie alle pressioni di William Wilberforce, un parlamentare britannico evangelico, e solo nel 1948 viene iscritta nella dichiarazione Universale dei Diritti Umani (art.4)  Mosè avrebbe potuto  eliminarla, è vero; gli stessi ebrei escono dall’Egitto per non essere più schiavi. Probabilmente, la saggezza divina non procede per affronti diretti ad un certo istituto, con un processo che, forse – è solo un’ipotesi – avrebbe prodotto danni o sarebbe risultati inapplicabile. Preferisce istituire una serie di norme che a ben guardare garantiscono una serie di diritti per gli schiavi, soprattutto rispetto alla loro possibilità di affrancarsi o alla loro eventuali condizione di debolezza se sono donne o figli. Se paragoniamo questo con una legge più antica della Torah – che datiamo verso il XIV ac, ma la datazione non è certa – come il codice di Hammurabi (1750 a.C.) , troviamo una serie di norme sugli schiavi che non garantiscono niente per loro, e che anzi aumentano le loro punizioni in caso di fuga. Alcuni esempi:

              16. Qualora qualcuno riceva in casa sua uno schiavo fuggitivo (maschio o femmina) della corte, o di un uomo liberato, e non lo porti fuori alla pubblica proclamazione del capo della casa, il padrone della casa sia messo a morte.
              17. Qualora qualcuno trovi schiavi (maschi o femmine) fuggitivi in aperta campagna e li riporti al padrone, il padrone degli schiavi lo ricompensi con due shekels d'argento.
              18. Qualora lo schiavo non fornisca il nome del padrone, il ritrovatore lo porti al palazzo; segua un ulteriore ricerca, e lo schiavo sia restituito al suo padrone.

              Che dire oggi di tutto ciò? Il mondo è cambiato molto, ma la schiavitù in forme diverse esiste ancora. Sia sotto forma di condizioni di lavoro ingiuste in paesi sviluppati che conoscono la crisi, quindi salari molto bassi, mancanza di feri, laboratori clandestini, donne vittime della tratta della prostituzione, che sotto forma di violazioni di diritti umani in paesi in cui il lavoro non ha le stesse garanzie che da noi. Il messaggio biblico consisterà quindi anche oggi a ricordare che gli uomini sono uguali e che nessuno ha diritto di tenere altri in schiavitù, incoraggiando qualsiasi legge, politica o movimento che limita le nuove forme di schiavitù. Ci incoraggia inoltre ad impegnarci a combatterle per come possiamo.  Tuttavia il messaggio biblico del nuovo testamento ci ricorda che esiste anche una schiavitù spirituale: seppure siamo liberi da forme di schiavitù umane, siamo schiavi spiritualmente del peccato, cioè di un’indole ribelle che non vuole vivere in armonia con Dio e che preferisce la propria autonomia ed autodeterminazione. Gesù disse: “Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato… Se dunque il figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi” (Giovanni 8, 34,36). Abbiamo allora tutti bisogno di essere liberati da qualche schiavitù, e la parola di Gesù che ha limitato la schiavitù un tempo, ci invita oggi ad una piena libertà spirituale nel dare la nostra vita a Gesù, perché la renda realmente libera.
              1. 2.      La pena di morte contrasta il comandamento di non uccidere?
              Abbiamo letto nei comandamenti che l’esplicita volontà di Dio è che non si uccida. Tuttavia le norme che vanno dal v.12 alla fine prevedono indiscutibilmente la pena capitale. Perché? I casi descritti riguardano azioni che hanno dell’innaturale, e che mostrano la violazione di alcuni principi creazionali fondamentali: la vita è di Dio, nessuno ha il diritto di toglierla, e chi la toglie la perde. I genitori sono coloro che danno la vita, quindi – senza distinzione di sesso, padre e madre – oltraggiarli significa negare la vita. Credo sia utile ancora una volta qualche raffronto con testi come il codice di Hammurabi, in cui si trovano numerosissimi casi di pena capitale per azioni apparentemente meno gravi, come la falsa accusa, il furto e simili, quindi non attentati alla vita. Possiamo dire che quindi già nella Bibbia l’uso della pena capitale viene limitato a certi casi estremi. Credo che Gesù nel nuovo testamento abbia esplicitamente rivisto la possibilità di uccidere altri uomini, dicendo che chi è senza peccato scagli la prima pietra (Giov 9). Questo ci ricorda che seppure il principio in assoluto ha un senso, la sua applicazione da parte di tribunali umani è quantomeno problematica.
              Tuttavia cerchiamo di capire bene il principio: togliere la vita a qualcuno è estremamente grave e rispetto a questo anche gli schiavi sono equiparati agli altri (v.20). Se quindi crediamo che queste norme vadano superate nella loro applicazione, il principio che permane e che dovrebbe essere ricordato oggi è che si vorrebbe vedere maggior rigore nella punizione di una serie di crimini; siamo abituati in Italia a vedere casi di delinquenti che grazie a sanatorie, premi, leggi fatte male ed altro, finiscono per uscire dal carcere pur avendo distrutto delle vite, e questo significa che se un tempo si è ecceduto nel rigore oggi si eccede nel lassismo. Certo, questo discorso non riguarda noi semplici cittadini che non interveniamo nelle leggi, ma può orientare le nostre opinioni.
              Ancora una volta però, parlando di una cosa simile è opportuno ricordare una cosa: ricordiamoci che Gesù, innocente, ha preso su di sé per noi, una pena capitale doppiamente ingiusta. Lottiamo in ogni modo per l’eliminazione della pena di morte, quasi sempre applicata in modo maldestro ed ingiusto, e gridiamo per una giustizia rigorosa con i criminali, ma chiediamoci sempre: siamo pronti a perdonare ogni criminale come Gesù ci ha perdonato prendendo la pena capitale su di sé, per gli omicidi di ogni tempo e per noi?
              1. 3.      La gravità delle pene.
              Diffuso in tutto il capitolo si può trovare il principio per cui ogni caso richiede valutazione e non ci sono solo i risultati, ma di tutto vanno viste le cause: distinzione quindi tra omicidio volontario e colposo, proporzionalità rispetto alle parti del corpo colpite (occhio per occhio), libertà agli schiavi che hanno subito danni fisici (mentre nel codice di Hammurabi si compensava in denaro), precauzione sugli animali o su opere come le cisterne. Alcuni di questi comandamenti fanno un po’ sorridere ma sono di grande attualità  se pensiamo alle normative sulla sicurezza e alla grande attenzione che c’è oggi in materia, con la distinzione tra rischio, pericolo, infortunio ecc. Senza entrare nello specifico di ogni norma, credo che la saggezza della Parola di Dio ci ispiri un principio di responsabilità: dobbiamo stare attenti alla vita. Non basta non uccidere, è importante vegliare affinché la vita, prezioso ed unico dono di Dio sia protetta. Strumenti apparentemente banali come le cinture di sicurezza o il casco hanno salvato delle vite. Sono il frutto di un’attenzione che come credente dovremmo avere, perché non possiamo dire come Caino: “sono forse il guardiano di mio fratello?” (Genesi 4,9) Guidare in stato di ebrezza non è poi molto diverso dal lasciare libero un toro noto per la sua violenza, perché in entrambi i casi pregiudico la vita di altri.
              Anche qui, non possiamo non estendere il principio alla nostra vita spirituale: questi passi dell’Antico testamento ci esortano a vegliare sulla vita e dobbiamo farlo. Siamo però anche incoraggiati a vegliare sulle nostre vite spirituali, ad incoraggiarci come chiesa-comunità affinché ognuno di noi cresca, stia bene ed abbia vita in abbondanza nella comunione con Gesù. AMEN

              venerdì 17 gennaio 2014


              La costituzione di Dio - Esodo 20.

              12 gennaio 2014 alle ore 21.35
              I dieci comandamenti
              Siamo davanti ad un testo che nella cultura occidentale è diventato estremamente conosciuto: chi non conosce i dieci comandamenti? E’ interessante che li troviamo proprio nel bel mezzo di un racconto, come per dire che la legge divina non è mai lontana dalla vita del popolo a cui è data. I nostri codici giuridici, non sono in genere iscritti in dei racconti, e non a caso sono fatti e letti da tecnici specializzati, mentre questi comandamenti, che sono una specie di costituzione, di carta fondamentale di quel che Dio chiede agli uomini, si collocano in mezzo ad un racconto di liberazione e cammino nel deserto. Per il popolo di Israele questi comandamenti erano lo strumento per mantenere la libertà ottenuta, e per capire la volontà di Dio. Per noi, il loro senso non cambia, e seppure sappiamo di essere salvati incondizionatamente dalla fede in queste dieci parole troviamo una guida sempre attuale, ed applicabile indistintamente in ogni epoca.
              Esaminiamo oggi i primi quattro comandamenti che riguardano Dio.
              1. 1.      Io sono il Signore Iddio tuo…
               Dio si presenta con il suo nome e salta subito agli occhi che la prima caratteristica che Dio dà di sé è che è: “Iddio tuo”, fondando quindi un senso di appartenenza, una relazione a tu per tu. Continua ricordando che è proprio quel Dio che ha liberato dalla schiavitù. Dio avrebbe potuto cominciare a descriversi come creatore, o come onnipotente, enumerando quindi delle sue qualità generali come quelle che troviamo nei libri di teologia sistematica. Invece preferisce ancorarsi nella concretezza della vita e rivelarsi in primo luogo come Dio nostro e liberatore. In virtù di questo vieta che esistano altri dei all’infuori di lui. Israele vive in un contesto in cui ci sono altre religioni e la tentazioni di cercare altre divinità c’è. Ma sono divinità che non liberano, e che non impostano con la persona un rapporto diretto e personale. Semplicemente perché “non sono”.
              Questa stessa parola si rivolge a noi oggi. Dio è qualcuno che cerca con noi un rapporto personale in modo tale che ognuno di noi possa dire che Dio è mio, e che si riconosca in una relazione in cui Dio dice: “io sono l’Iddio tuo”. Ed è un Dio che ci ha liberati. Potremmo elencare numerosi padroni spirituali dai quali Dio ci ha liberato, che possono andare dalla droga, all’alcol, al carattere, ad una vita priva di senso, dalla tristezza o ancora dalla disperazione. Ma in primo luogo Dio ci ha liberati da noi stessi, dall’idea di voler far dipendere la nostra vita da noi, o da altre divinità fatte di nostre soddisfazioni, giochi, hobbies, famiglia, lavoro, ecc. Assolutizzare ognuno di questi “dei” ci rovina, perché niente è degno di prendere il posto di Dio. Il vuoto che è dentro di noi e che ha forma di Dio, può essere riempito solo da Dio.
              E’ vero però che molti di noi di questa liberazione hanno abusato, e contenti di essere liberati da Dio si illudono di essere liberi da Dio stesso. Dio libera, ma per renderci suoi servitori. Non perché sia un sovrano che ha bisogno di sudditi, ma semplicemente perché la nostra realizzazione avviene nel momento in cui accettiamo pienamente la nostra creaturalità rispetto ad un creatore. Siamo creature di Dio, e possiamo diventare figli di Dio. Ma questo implica dei doveri, delle responsabilità. Non siamo liberi di non lodare… Non siamo liberi di non amare… Non siamo liberi di non servire… Perché Dio ci ha liberati proprio da una vita che era negazione di servizio, lode ed amore. Meditiamo quindi quotidianamente il senso della libertà ricevuta, per non cadere sotto nuovi padroni.
              1. 2.      Non ti farai statua alcuna…
              A differenza della religioni che stavano intorno ad Israele, Dio proibisce di farsi delle immagini, delle statue e degli idoli che lo rappresentino. Questo in parte sottolinea nuovamente la condanna dell’idolatria, in parte ci dice molto sulla natura di Dio: rappresentare Dio significa negare sia la sua trascendenza che la sua vicinanza. Dio “trascende” il mondo, cioè è al di là delle cose che vediamo, è più grande e di natura diversa di ognuna di esse. Non deve quindi essere ridotto a queste, altrimenti viene distorto, falsato. Rappresentandolo, anziché averne un’immagine più chiara, lo riduciamo e lo fraintendiamo. Questo distrugge anche la sua vicinanza, cioè il modo in cui si relaziona con il popolo. Molti salmi mettono in guardia il popolo dalle statue che non sentono, non vedono, non hanno sentimenti, mentre Jahaveh ce li ha, perché non è un idolo inanimato.
              Il ricorso ad immagini è molto frequente in diverse religioni, anche rientranti nel cristianesimo, ma i comandamenti sono molto categorici: né con statue, né con crocifissi, è giusto rappresentare Dio perché lo si limita. Nelle chiese evangeliche in genere questo messaggio relativo alle statue è ben compreso, ma sarebbe un errore fermarsi qui. Credo che sia un’idolatria qualunque forma di limitazione della trascendenza di Dio. Molte chiese infatti, seppure senza immagini e statue, si trasformano nella norma assoluta che stabilisce come è fatto Dio, finendo per affermare un possesso della verità molto vicino all’idolatria. La verità si identifica allora con quella specifica chiesa (è quanto afferma anche il cattolicesimo nel suo credo) e nuovamente viene ridotta e limitata. E’ nostro compito vivere la fede, e ricercare Dio, cercando di non imporre a nessuno altro che la Scrittura – che non è statica – che fornisce la giusta immagine di Dio.
              1. 3.      Non pronunciare il nome dell’Eterno invano…
              Il recente dibattito sulla possibilità di dare ai figli il cognome della mamma ci fa vedere che ancora oggi il nome è un qualcosa di molto importante, a cui si tiene e che in qualche modo porta con sé le caratteristiche della persona. Abbiamo già commentato che Jahveh ha questo nome ricco, che indica l’essere, l’eternità, la non riducibilità ed altro. E ricordiamo anche che nell’esodo Dio ha molto volte affermato che tutta la terra avrebbe dovuto conoscere il suo nome.  Usare il nome di Dio invano significa rovinare la sua reputazione, associarlo a pratiche per cui chi sente parlare di Dio se ne allontana. Ma cosa significa usare invano? In che modo gli israeliti avrebbero potuto usare il nome di Dio invano?  Gli ambiti di applicazione sono numerosi. Certamente la falsa profezia, fatta nel nome di Dio, è un uso vano. Così lo è chiamare Dio in causa per i propri interessi. Pensiamo a tanti partiti politici che prendono in prestito il nome di Dio, oppure si dichiarano vicini alla chiesa, raccontano le loro pratiche religiose per catturare voti; sono tutti usi peggio che vani, strumentali del nome di Dio. Certamente possiamo far rientrare le frequenti bestemmie che sentiamo, che invocano Dio spesso ormai quasi inconsapevolmente, per offenderlo. Credo tuttavia che ci sia di peggio. Quando le chiese perdono di vista i loro veri obiettivi, quando smettono di lodare e di onorare il nome di Dio e finiscono per proporre dei riti vuoti, delle funzioni sterili, che su Dio non comunicano niente, quando scivolano nella religiosità perdendo la spiritualità, ecco che il nome di Dio è usato invano. Se al culto non preghiamo sentendo qualcosa di forte per Dio, stiamo usando invano il suo nome.
              1. 4.      Ricordati del giorno del Signore per santificarlo.
              A chi di noi capita di scordare che un certo giorno è domenica? Ci capita quando siamo in vacanza e sentendoci liberi perdiamo la cognizione del tempo. Ma durante la settimana è difficile scordare che siamo durante il giorno in cui finalmente non si lavora e ci si riposa – fa eccezione chi per motivi imprescindibili deve lavorare di domenica. Forse per gli ebrei nel deserto, che vivevano in una società meno strutturata, e secondo le circostanze anche metereologiche, era meno scontato che un certo giorno non si lavorasse: se ha piovuto per 10 giorni e di sabato c’è il solo, come si fa a non riprendere il lavoro di allevamento o coltivazione proprio in quel giorno? Ecco perché c’è un esortazione al ricordo del giorno. Ma c’è di più: il lavoro sfrenato disumanizza, ieri come oggi. Lavorare e basta finisce per alienarci, e renderci schiavi, facendoci perdere di vista sia il nostro rapporto con Dio che quello con gli altri. Ecco allora il giorno del sabato che è una specie di “santuario nel tempo”, che ci permette di prendere del tempo per noi e per Dio.
              Purtroppo la nostra società ha colto la forma di questo comandamento, ma ne ha rinnegato la sostanza. Nei contratti di lavoro è in genere previsto un giorno di pausa, sebbene ultimamente si tenda sempre di più a spingere per il lavoro domenicale, con apertura di negozi, supermercati ed altro. Ci garantiamo quindi un giorno di riposo, ma non sempre facciamo di questo riposo “lo shabbat di Dio”. Mi colpì un giorno l’osservazione di una sorella olandese che mi disse che nella loro chiesa incoraggiavano a passare la domenica pomeriggio, dopo il culto e l’adorazione, a studiare la parola, ad approfondire qualche tema. E’ vero che per molti di noi la domenica diventa l’unico momento libero della settimana ed in questa si coltivano un po’ tutte le relazioni sociali, familiari e di chiesa. Credo che da un lato dobbiamo veramente fare attenzione a che ogni domenica sia veramente un momento sia di vero riposo, che di vera consacrazione al Signore.

              Dove abita Dio?

              Luoghi di culto Aggeo 2: 3-9  (per leggere Aggeo capitolo 2 clicca qui:http://www.laparola.net/testo.php?versioni[]=C.E.I.&riferimento=Aggeo2)
              Per la prima volta ci riuniamo oggi in questa casa che per qualche anno sarà il nostro luogo di culto. La concezione che abbiamo oggi di “luogo di culto” è molto diversa da quella che ne avevano nell’Antico Testamento, e le parole di Gesù prima e degli apostoli poi insegnano chiaramente che Dio non abita in templi fatti dalle mani degli uomini, e che il vero tempio sono le persone. Tuttavia una lettura di un antico profeta come Aggeo che parla del tempio del Signore, quindi del luogo in cui materialmente Dio aveva scelto di essere rappresentato sulla terra, mi pare opportuna per cominciare questo anno nuovo in un luogo nuovo. Saltiamo il capitolo primo del libro nel quale il profeta riprende aspramente il popolo per il suo individualismo:  scarsa disponibilità a fornire i materiali per il tempio ma grande cura per le loro case. Nel secondo capitolo dalla riprensione si passa all’incoraggiamento.  
              1. Coraggio: 4 Ora, coraggio, Zorobabele - oracolo del Signore - coraggio, Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese, dice il Signore, e al lavoro, perché io sono con voioracolo del Signore degli eserciti -5 secondo la parola dell'alleanza che ho stipulato con voi quando siete usciti dall'Egitto; il mio spirito sarà con voi, non temete.
              Dio, dopo aver ripreso ed accusato il popolo per bocca di Aggeo lo rassicura. La perfetta mescolanza di esortazione diretta all’azione, con la garanzia della presenza divina fanno di questo passo una delle parole più incoraggianti e rinvigorenti dell’Antico Testamento. Sono una sorta di energetico, antidepressivo e ricostituente che dovremmo leggere ogni volta che dobbiamo intraprendere un lavoro, che iniziamo qualcosa di nuovo o che, semplicemente, siamo scoraggiati. Il Signore ci dice: coraggio! Non mollare! Altri traducono: “sii forte!”. E poi: mettiti al lavoro. La fede non è solo un ricevere da Dio garanzie e certezze sulla sua esistenza, ma anche un agire. Un mettersi al lavoro, in questo caso per la gloria di Dio, per un tempio, per un luogo che lo rappresenti sulla terra. Anche se non crediamo certo che Dio sia qui tra queste quattro mura, siamo convinti che queste sono funzionali al suo regno. Crediamo che queste ci serviranno per dargli gloria, ed allora è importante che ognuno di noi prenda seriamente a cuore questo posto. Che contribuisca, che dia, che pulisca, si impegni, faccia di tutto perché questo luogo possa essere utile all’opera del Signore.
               2. Dio e lo splendore: arte, bellezza e beni per la gloria di DioAncora un po' di tempo e io scuoterò il cielo e la terra, il mare e la terraferma. 7 Scuoterò tutte le nazioni e affluiranno le ricchezze di tutte le genti e io riempirò questa casa della mia gloria, dice il Signore degli eserciti. 8 L'argento è mio e mio è l'oro, dice il Signore degli eserciti. 9 La gloria futura di questa casa sarà più grande di quella di una volta, dice il Signore degli eserciti
              La profezia dice che il Signore scuoterà la terra. Non credo si tratti di un scossa di terremoto, ma piuttosto di una scossa morale, di una scossa che deriva dalla predicazione della parola di Dio. Da questa scossa verrà fuori che le ricchezze affluiranno verso la casa di Dio. Ora, noi non diamo valore speciale alle cose materiali ma è importante capire che nella Bibbia la materialità non è mai disprezzata o screditata a favore della spiritualità. Materiale e spirituale, spirito e corpo, si compenetrano e si completano. Se i templi fatti dagli uomini perdono ogni benedizione e privilegio quando vengono usati per la gloria dell’uomo o per scopi dubbi – si pensi alla purificazione del tempio da parte di Gesù – in sé non sono un male, anzi. Certamente i contemporanei di Gioele hanno fatto male a screditare il nuovo tempo perché inferiore al primo rispetto alla bellezza esteriore; tuttavia i beni anche materiali, lo splendore le arti, tutte queste cose in sé possono essere usate per la gloria di Dio ed affluiranno, è detto, nella casa del Signore. Se il lusso e le ricchezze messe a servizio di pochi ci indignano, le stesse usate per l’utile comune o per la gloria di Dio non ci devono spaventare. Esse appartengono al Dio che rivendica come suoi l’argento e l’oro.  Ora, questo nostro appartamento non è certo un tempio sontuoso, né qualcosa di particolarmente importante per l’estetica. Ma sarà nostro dovere renderlo confortevole, bello gradevole per chi viene. E soprattutto sarà importante per noi che nella sua materialità è uno spazio che permette l’avanzare del regno di Dio e che aumenta la gloria di Dio. Questo è quello che ricerchiamo e che ci deve spingere a prendercene cura come se fosse casa nostra.
              3. La ricerca della pace. ; in questo luogo porrò la pace.
              L’ultima promessa che viene fatta rispetto al nuovo tempio è che in esso ci sarà pace. Una simile promessa per gli ebrei che erano reduci da un esilio e che avevano dovuto fronteggiare diversi avversari, interni ed esterni è molto forte. Il tempio non deve essere causa di divisione, ma di pace, di prosperità.
              Io sogno che questo luogo possa essere una casa di pace. Di pace tra Dio e gli uomini per coloro che il Signore chiamerà attraverso l'uso di questo luogo. Perché il vangelo, l’annuncio del regno di Dio, in primo luogo è l’annuncio di questa buona notizia: è possibile in Gesù “fare pace” con Dio. Dio è adirato contro l’ingiustizia umana, contro le prevaricazioni, gli abusi, le guerre, i femminicidi, e più semplicemente contro l’autonomia umana che non è che una forma di divinizzazione della creatura. Ma Gesù è venuto per morire al posto nostro, prendendo su di sé i nostri peccati, permettendo possibile la pace tra uomo e Dio. Io prego che questo luogo sia usato perché più donne e uomini possibile possano trovare pace con Dio.
               Sogno che sia un luogo di pace tra di noi. Purtroppo in molti casi la sfida di vivere una fede comune, in modo rigoroso e impegnato porta anche a dividersi, a scontrarsi. Io prego perché invece questo luogo possa essere un collante che ci unisca di più, che permetta momenti di incontro e comunione che ci leghino.
              Infine prego che sia un luogo di pace per chiunque entra pur non facendo parte di questa chiesa. Che possa trovare in questo luogo fisico pace, serenità, magari tempo per riflettere, silenzio per pregare, ed anche convivialità ed accoglienza. Questo è il senso pieno della pace e quando la materialità di un luogo serve ad incoraggiarla allora possiamo dire che tutto, l’or, l’argento, ma anche le pietre i mattoni, le persone sono di Dio.




              Esodo 19. Natale sul monte Horeb

              15 dicembre 2013 alle ore 18.04
              Per leggere il capitolo 19 dell'Esodo clicca qui: http://www.laparola.net/testo.php?versioni[]=C.E.I.&riferimento=Esodo19



              Dopo un viaggio nel deserto di tre mesi gli ebrei guidati da Mosè sono arrivati finalmente presso il monte Sinai, o Horeb, il luogo in cui Dio sceglie di rivelarsi. Siamo giunti ad un punto cruciale del libro dell’Esodo, a suo modo unico nella Bibbia perché Dio si manifesta in modo speciale a tutto il popolo, con segni e caratteri che non troviamo altrove.  Dopo essere stati liberati, dopo essere stati messi alla prova nel deserto, gli ebrei incontrano il Dio creatore della loro vita ed autore della loro liberazione.
                          In questo periodo dell’anno si festeggia il Natale, periodo storicamente non confermato, ma convenzionalmente accettato in cui si ricorda che Dio si è fatto uomo nella persona di Gesù Cristo. Credo sia molto importante per capire la portata dell’incarnazione di Dio in un uomo, avere presente tutto quelle che c’è stato prima di questa incarnazione; per mettere a confronto con la vicinanza di Dio l’opportuna distanza che l’ha preceduta. “Avvicineremo” questo passo con tre diversi “avvicinamenti” del popolo al monte, ed a Dio stesso, e valuteremo come questi tre avvicinamenti possano essere adatti a chiunque vuole credere nel Dio che ancora oggi crea, libera e salva.
              1. 1.      Avvicinarsi con impegno
              Dio ha fatto molto per questo popolo che arriva stanco ma libero al monte Sinai ed usa una bellissima immagine: le ali dell’aquila. Il Signore, come una madre premurosa, ha trasportato il suo popolo in un cammino di libertà e prima di esporgli una legge che regolerà sia la fede che la vita civile, vuole un incontro diretto con lui. Prima ancora di esporre una serie di regole chiede quindi un impegno personale: ubbidire alla sua voce e rispettare il suo patto (v.5). Non si tratta qui di porre delle condizioni che permettano di diventare il popolo di Dio. Israele è già il popolo di Dio, il Signore lo ha scelto per grazia e per amore. Smettere di ubbidire alla voce di Dio e non rispettare il patto significherà snaturarsi, rovinare la libertà regalata e mancare la grande missione: quello di essere il “tesoro”, “una nazione santa” ed “un popolo di sacerdoti.” Queste tre caratteristiche vanno ben sottolineate: il tesoro particolare riguarda proprio il rapporto diretto con Dio, di amicizia e fiducia; la “nazione santa” è una nazione che si percepisce e dimostra come diversa perché ha una missione speciale; il “popolo di sacerdoti” è tale perché ha la missione immensa e meravigliosa di portare la parola di Dio al resto dei popoli del mondo, non in quanto superiore, anzi, in quanto servitore. E’ un popolo che non è destinato a regnare sugli altri, ma a servire… Per tenere fede a questo mandato triplice ci vuole un impegno serio e deciso davanti a Dio, un sì che confermi l’identità che Dio ha già dato.
                          Il Nuovo Testamento ci fa capire che questo mandato non è ristretto ad Israele, ma è stato direttamente ripreso dall’apostolo Pietro nella sua lettera e riferito a dei credenti che abitavano in Ponto e in Galazia: “ma voi siete una stirpe eletta, una sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato perché proclamiate la virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (I Pietro 2,9). Queste importanti missioni sono ancora le stesse per chi oggi vuole dirsi credente. Il mandato è grande e non consente leggerezza. Ancora oggi ci avviciniamo a Dio, ma quel Dio che ci chiama ci chiede un impegno preciso, un rispetto del suo patto che vuole stringere con noi, un sì alla sua persona, alla sua missione, alla sua verità. Siamo pronti a pronunciarlo, come il popolo ha risposto di sì?
              1. 2.      Avvicinarsi con fede (9 ; 16-20)
              Prima di dare una risposta a questa domanda avanziamo nella lettura. Il Signore vuole che tutto il popolo ascolti la sua voce mentre parla con Mosè, ma senza vederlo. Ci dice esplicitamente che questo serve a fare sì che il popolo abbia fede in Mosè. Non certo per farne un Dio, ma perché il popolo creda che egli è veramente il profeta che Dio ha inviato per rivelarsi. Il verso 9, nella sua brevità, credo che condensi in poche righe, ed in forma narrativa, l’essenza della fede. Ci si deve affidare a qualcuno. In questo caso Mosè, che è qui una chiara prefigurazione di Gesù, non a caso presentato dal vangelo di Matteo come il nuovo Mosè. In questo affidarsi c’è un qualcosa che sfugge, qualcosa che implica un passo di “fede”, di credere in qualcosa che non si vede, anche se si sente. Ora ogni israelita sapeva bene che non si può vedere Dio e sopravvivere, perché Dio è talmente perfetto che la sua luce metterebbe allo scoperto ogni nostra bruttura. Tuttavia il fatto di non poterlo vedere ha anche qualcosa che fa appello alla libertà: vedere Dio significherebbe essere obbligati a credergli, non più essere liberi di credergli. Basta allora l’udito che è un indizio sufficiente ma non necessario per credere che qualcuno di straordinario sta parlando a Mosè.
              Nel nuovo testamento il vangelo di Matteo, al capitolo 17 ci parla della trasfigurazione di Gesù, davanti Pietro, Giacomo e Giovanni. Anche questa avviene su un monte, ed anche qui salgono solo alcuni dei discepoli. Anche loro non vedono Dio direttamente, ma odono una voce che incoraggia a credere nel Figlio in cui il padre si è compiaciuto. Gesù è trasfigurato, quindi ha qualcosa di speciale, eppure non compare in quanto Padre, ma in quanto Figlio, Dio fatto uomo.
              Oggi siamo confrontati a questa stessa sfida. Siamo pronti a prenderci un impegno forte nei confronti di Dio? Non aspettiamoci di avere prove schiaccianti quasi si trattasse di vederlo, di poterlo toccare. La vita sarà piena di voci che vengono da dietro le nuvole, di segnali che indicano fortemente che…, ma che non ci “costringono” a credere, come se si trattasse di accettare che vediamo le nostre mani o le persone che abbiamo intorno. Il Signore ci chiama sul suo monte per pronunciare un sì che scaturisce dalla nostra fede, dal nostro affidarci completamente a Dio, al fatto che quel Gesù venuto qui 2000 anni fa era veramente suo figlio, il profeta colui che solo libera, salva e fa vivere.
              1. 3.      Avvicinarsi con delicatezza e santificazione (10-15; 21-24)
              Gli accorgimenti da prendere per avvicinarsi al monte e le punizioni inflitte a chi tocchi il monte o a chi si fa irruzione possono stupire. Eppure mai capiremo il Natale, la vicinanza completa di Dio all’umanità, senza questa premessa. La grandezza del Natale, del Dio che si fa uomo, sta nel fatto che Dio si avvicina ad un uomo che vuole stargli lontano e che ha scelto con i suoi peccati di stargli lontano. Perché il popolo non deve fare irruzione e deve avvicinarsi con delicatezza? Perché Dio è Dio ed avvicinarsi a lui significa rendersi conto che ci si avvicina a quel che esiste di più alto, di più sublime, di più puro sia possibile pensare ed immaginare. Avvicinarvisi ritenendosi superiori, con leggerezza o senza consapevolezza dei propri peccati significherebbe capire male chi si ha davanti. Molta attenzione viene posta ai rituali di santificazione, che erano puramente simbolici. Ma tutto questo aveva il semplice scopo non di allontanare, ma di responsabilizzare il popolo: popolo conosci te stesso. Sappi che non sei perfetto, sappi che hai dubitato, hai criticato, ha cercato di tornare in Egitto. Ma ora il Signore ti chiama ad avvicinarti.
              Capiamo veramente il significato del Natale oggi? Dio si è avvicinato agli uomini facendosi uomo, ma noi ci rendiamo conto di cosa significhi che Gesù abbia accettato di prendere parte ad un’umanità che lo ha rifiutato ed ucciso?
              Il Signore ha pensato a dei rituali di santificazioni validi anche per noi. Ha pensato di immolare suo Figlio Gesù Cristo proprio perché anche noi possiamo stare alla sua presenza senza paura del nostro peccato. L’apocalisse offre una bellissima immagine che descrive proprio questa situazione: “Poi uno degli anziani mi rivolse la parola dicendomi: Chi sono queste persone vestite di bianco e da dove sono venute? Io gli risposi: “Signor mio, tu lo sai”. Ed egli mi disse: “Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione. Essi hanno lavato le loro vesti e le hanno imbiancate nel sangue dell’Agnello”.
              Il Signore ancora oggi ci chiama ad avvicinarci a lui, forse non su montagne fisiche, ma su quelle montagne spirituali che si oppongono tra noi e lui e che ce lo fanno sembrare troppo alto. Ci chiama a santificarci lavando le nostre versi nel sangue di Gesù, quel sangue versato per i nostri peccati che solo ci dà salvezza, cioè possibilità di stare davanti a Dio. Che questo Natale sia un momento di vicinanza reale, non rituale. Che sia un Natale di santificazione, non di consumi. Che sia un Natale che risveglia la nostra fede.  

              Come amministrare? Esodo 18,13-27 – Marco 3, 13-18

              8 dicembre 2013 alle ore 20.51
              Esodo 18,13 Il giorno dopo Mosè sedette a render giustizia al popolo e il popolo si trattenne presso Mosè dalla mattina fino alla sera. 14 Allora Ietro, visto quanto faceva per il popolo, gli disse: «Che cos'è questo che fai per il popolo? Perché siedi tu solo, mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera?». 15 Mosè rispose al suocero: «Perché il popolo viene da me per consultare Dio. 16 Quando hanno qualche questione, vengono da me e io giudico le vertenze tra l'uno e l'altro e faccio conoscere i decreti di Dio e le sue leggi». 17 Il suocero di Mosè gli disse: «Non va bene quello che fai! 18 Finirai per soccombere, tu e il popolo che è con te, perché il compito è troppo pesante per te; tu non puoi attendervi da solo. 19 Ora ascoltami: ti voglio dare un consiglio e Dio sia con te! Tu sta' davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni a Dio. 20 A loro spiegherai i decreti e le leggi; indicherai loro la via per la quale devono camminare e le opere che devono compiere.21 Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini integri che temono Dio, uomini retti che odiano la venalità e li costituirai sopra di loro come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine. 22 Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una questione importante, la sottoporranno a te, mentre essi giudicheranno ogni affare minore. Così ti alleggerirai il peso ed essi lo porteranno con te. 23 Se tu fai questa cosa e se Dio te la comanda, potrai resistere e anche questo popolo arriverà in pace alla sua mèta».
              24 Mosè ascoltò la voce del suocero e fece quanto gli aveva suggerito. 25 Mosè dunque scelse uomini capaci in tutto Israele e li costituì alla testa del popolo come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine. 26 Essi giudicavano il popolo in ogni circostanza: quando avevano affari difficili li sottoponevano a Mosè, ma giudicavano essi stessi tutti gli affari minori. 27 Poi Mosè congedò il suocero, il quale tornò al suo paese.
              Marco 3, 13-18
              13 Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. 14 Ne costituì Dodici che stessero con lui 15 e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni.
              16 Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; 17 poi Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; 18 e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananèo 19 e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì.

              Stare all’ascolto dei consigli di un saggio appena integrato nella comunità di fede degli ebrei, è un privilegio che per il poco tempo che dura va sfruttato fino in fondo. Da quello che leggiamo pare di capire che Mosè sia rimasto insieme a suo suocero Ietro solo 2 giorni, ma viene da dire: “Che giorni intensi!” In quei due giorni si toccano punti cruciali tanto per la vita di Mosè e per la sua famiglia che per la vita del popolo di Israele. Abbiamo già visto che la famiglia naturale di Mosè viene integrata nella comunità di fede. In questo secondo giorno i consigli di Ietro riguardano l’intero popolo di Israele e la sua amministrazione. Proprio per questo è interessante leggerli in parallelo con il passo del vangelo che riguarda l’elezione dei dodici da parte di Gesù, momento breve che pure riveste tanta importanza. Questi due passi, pur nella loro diversità, hanno alcune caratteristiche che possono ancora ben ispirare la condotta dei un leaders di ogni tipo, e quella di chi invece è guidato. Ma nel leggere sia i leader che chi è guidato dovranno saper rispondere ad un triplice incoraggiamento ad imparare.
              1. 1.      Imparare a delegare
              Ietro osserva Mosè ed il suo rapporto con il popolo e non ci mette molto a rendersi conto che la sua gestione del popolo non funziona. Genera malcontento perché il popolo passa il tempo ad aspettare, e genera stress in Mosè che si occupa a giornate intere di gestire delle liti tra le persone. In questo Mosè, seppure a fin di bene, commette certamente un errore. Si sopravvaluta pensando di poter gestire tutto, mentre sicuramente non riesce ad accontentare tutti e perde tempo per altri impegni importanti. Pecca inoltre di orgoglio, perché non sa fare a delegare e sottovaluta quindi le persone che sono intorno a lui. Ietro quindi consiglia di suddividere il lavoro: Mosè insegnerà le leggi a tutti – cosa che non poteva fare passando il tempo a giudicare – e interverrà solo nei casi più gravi. Questo implica due cose: riuscire ad umiliarsi e riuscire a fidarsi. Per quanto riguarda Gesù le cose vanno in modo un po’ diverso, perché non possiamo dire che gli sia mancata l’umiltà. Possiamo però dire che dà un esempio di umiltà ai discepoli e che ha in loro una grande fiducia, perché non è cosa da poco delegare a degli uomini la diffusione del regno di Dio.
              Quanto osserviamo in questi due leader biblici lo possiamo prendere come esempio anche oggi. In ogni chiesa ci sono guide che le diverse denominazioni chiamano pastori, anziani, responsabili, vescovi o altro, e nel corso della storia le chiese cristiane hanno spesso camminato in una direzione contraria a quella della condivisione della responsabilità, creando strutture verticistiche ed autoritarie che collocano tutto il potere in una sola persona. È un rischio costante che si può prevenire con strutture adeguate, come consigli di chiesa che affiancano l’operato del leader, organi esterni di controllo, assemblee periodiche che esplicitano tutto quello che si fa. Queste tuttavia possono solo mitigare i danni laddove  manchino in chi giuda la fiducia e l’umiltà necessarie a guidare. Oltre a queste è importante che chi vuole guidare prenda sul serio il consiglio di Ietro misurando fino a che punto è disposto a fidarsi umilmente degli altri come Mosè dopo il consiglio di Ietro, e Gesù nella scelta dei 12 hanno fatto. Un rapido cenno all’attualità: la figura di Nelson Mandela recentemente scomparsa ha mostrato di saper agire in questo senso: eletto presidente ha rinunciato al potere, mostrando che a cuore aveva il servizio, non il potere.


              1. 2.      Imparare a collaborare
              Non ci sono però istruzioni solo per i leaders in questo passo. Anche chi è guidato da qualcuno che ha riconosciuto responsabilmente come guida ha la sua parola da dire ed il suo ruolo da imparare. Se il messaggio centrale del passo è che la gestione del popolo di Dio, ma anche più generalmente la gestione di un popolo umano, non sono mai affari di un solo, ma responsabilità collettive, allora chi non è un leader deve essere pronto ad offrire tutta la disponibilità possibile a collaborare per in bene comune. Se è vero che esistono problemi nelle chiese legati al dirigismo dei leader è anche vero che molti problemi vengono dal rifiuto di assumersi delle responsabilità e dal fatto che delegare, che è difficile per chi è tendenzialmente dispotico, è molto comodo per chi è pigro. Verissimo che Dio dice che le gli uomini non parlano parleranno le pietre, ma è anche vero che in assenza di uomini disponibili ad annunciare, a lavorare con Gesù, il vangelo non passa…
              La responsabilità che Mosè ha dato, non a chiunque, ma a certe persone, e che ugualmente Gesù a dato ai 12, quindi non a chiunque è grande. Ognuno di noi ha il dovere di aprire il proprio cuore davanti a Dio per capire come può collaborare, come può sgravare il lavoro della conduzione di un gruppo, come può contribuire favorendo la gestione della cosa comune. Perché se è fondamentale per un leader avere fiducia, è anche fondamentale che una volta che l’ha data senta di avere dei collaboratori su cui può realmente contare. Siamo quindi chiamati ad essere guidati, ma ad esserlo collaborando a guidare per la gloria di Dio e non per quella di un leader.

              1. 3.      Imparare ad ascoltare tutti
              E’ significativo osservare da chi sia venuto il consiglio. Ietro è un madianita e non è israelita. Nel passo precedente abbiamo assistito alla sua conversione che è consistita nel riconoscere che Javeh è il più grande degli dei. Resta che si tratta di un non israelita. La saggezza del suo consiglio da dove è venuta? Dalla sua esperienza umana, dal suo essere stato sacerdote madianita o da una rivelazione divina? Il testo non si pronuncia né in un senso né in un altro, benché Ietro dica esplicitamente al v. 23 “e così Dio ti ordina”. Essendosi convertito da appena un giorno, possiamo pensare che la sua intelligenza umana, le sue esperienze che in quel campo erano superiori a quelle di Mosè, che è un leader nascente, siano state in pieno accordo con la volontà di Dio, che avrà confermato quello che sentiva. Si tratta infatti di consigli piuttosto ordinari che non richiedono chissà quali rivelazioni, ma che nondimeno vanno dati nei momenti giusti. Possiamo quindi aggiungere che un messaggio di questo passo è che bisogna imparare ad ascoltare tutti, anche chi è appena entrato in un gruppo, come Ietro, perché può avere uno sguardo anche più distaccato e chiaro sulle dinamiche del gruppo. Gesù tra i suoi sceglie gente piuttosto diversa; pescatori per lo più, ma anche esattori di imposte come Matteo, attivisti politici come Simone lo zelota. Ognuno arriva con la sua esperienza e la sua diversità. Non sono queste a qualificarli come buoni credenti, ma tutti si inseriscono con i loro bagagli culturali ed umani in un gruppo in cui avranno delle responsabilità.
              La grossa sfida della chiesa di oggi è di imparare ad ascoltare veramente tutti. Nella società multietnica e plurale si può rischiare di marginalizzare all’interno della chiesa chi non fa parte di una chiesa da tanto, chi è straniero ed ha una comprensione della realtà diversa da chi è sempre stato in uno stesso posto. Il messaggio di Ietro è anche questo: seppure madianita, ed adoratore di Jahveh da poco il suo consiglio è stato importante e cruciale per la vita del popolo.