mercoledì 16 maggio 2012


Atti 4, 32-5,11 Chiesa Evangelica Libera di Lucca
I rischi del dare

32 La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. 33 Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. 34 Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto 35 e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.
36 Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa «figlio dell'esortazione», un levita originario di Cipro, 37 che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l'importo deponendolo ai piedi degli apostoli. 1 Un uomo di nome Anania con la moglie Saffira vendette un suo podere 2 e, tenuta per sé una parte dell'importo d'accordo con la moglie, consegnò l'altra parte deponendola ai piedi degli apostoli. 3 Ma Pietro gli disse: «Anania, perché mai satana si è così impossessato del tuo cuore che tu hai mentito allo Spirito Santo e ti sei trattenuto parte del prezzo del terreno? 4 Prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Perché hai pensato in cuor tuo a quest'azione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio». 5 All'udire queste parole, Anania cadde a terra e spirò. E un timore grande prese tutti quelli che ascoltavano. 6 Si alzarono allora i più giovani e, avvoltolo in un lenzuolo, lo portarono fuori e lo seppellirono.
7 Avvenne poi che, circa tre ore più tardi, entrò anche sua moglie, ignara dell'accaduto. 8 Pietro le chiese: «Dimmi: avete venduto il campo a tal prezzo?». Ed essa: «Sì, a tanto». 9 Allora Pietro le disse: «Perché vi siete accordati per tentare lo Spirito del Signore? Ecco qui alla porta i passi di coloro che hanno seppellito tuo marito e porteranno via anche te». 10 D'improvviso cadde ai piedi di Pietro e spirò. Quando i giovani entrarono, la trovarono morta e, portatala fuori, la seppellirono accanto a suo marito. 11 E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa e in quanti venivano a sapere queste cose.

Il passo che abbiamo appena letto è uno di quei passi che imbarazza i commentatori. O almeno, alcuni commentatori. Da quando abbiamo cominciato a leggere il libro degli Atti abbiamo assistito ad episodi che parlano di vita, ed esaltano la vita nelle sue diverse forme: la vita ritrovata di Gesù, il risorto, che parla agli apostoli; la vita nuova nello Spirito che investe coloro che hanno vissuto la Pentecoste; la vita nuova di un paralitico che finalmente può usare le sue gambe. Improvvisamente, ed apparentemente per opera degli stessi apostoli che finora abbiamo visto essere operatori di vita, subentra la morte di due persone, membri della chiesa primitiva. Questo solleva interrogativi e necessita chiarimenti. Potremmo tentare di relativizzare il tutto, come anche di cambiare la nostra concezione di Dio alla luce delle nuove cose che il passo ci ha insegnato.
Ho deliberatamente scelto di unire l’ultima parte del capitolo 4 e l’inizio del capitolo 5 perché, a mio modo di vedere, hanno forti elementi di omogeneità: entrambi ci parlano della vita comune, e di ciò che significa donare, nel contesto di una vita comune. E’ all’interno di questa cornice comunitaria che cercheremo di capire questo passo e di trarne un insegnamento per la chiesa moderna.

1. La vita comune

Il passo comincia descrivendoci la vita comune nella quale si organizza la chiesa primitiva, ed è probabilmente un ampliamento dei vv. 44 e 45 del capitolo 2. La chiesa primitiva non è una chiesa in cui conta l’avere, o meglio l’avere, la materialità conta ed è importante nella misura in cui è condivisa. Essere parte della chiesa comporta l’avere beni comuni. Non si tratta di uno stile di vita derivato dai buoni propositi dei singoli, ma da uno stile di vita motivato dalla “testimonianza della resurrezione” fornita dagli apostoli. Per quanto si sia già detto che questo stile comunitario non è un comandamento che la chiesa sia tenuta ad applicare di continuo, proprio perché ci si presenta non sotto forma di un imperativo, ma sotto forma di una descrizione di ciò che succedeva, non possiamo non cogliere un segnale forte delle conseguenze della fede nelle persone. Oggi più di una volta siamo plasmati dalla cultura del materialismo, dell’importanza dell’avere, del possedere qualcosa. Proviamo a pensare per un attimo come sarebbe diversa la nostra vita se non dessimo per scontato che quei semplici oggetti che usiamo ogni giorno nel quotidiano (libri, biciclette, computer, case, auto, sedie, asciugamani, telefoni, ecc. ) non sono nostri ma di tutti i membri della nostra chiesa. Siamo talmente plasmati dalla cultura dell’appartenenza materiale che ci è difficile immaginare persino le modalità secondo cui organizzare una vita in cui le cose non sono nostre. Una simile scelta implica necessariamente un primato della persona sull’oggetto; una priorità assoluta dei bisogni dell’altro rispetto ai propri. O meglio dei bisogni comuni rispetto a quelli individuali.
Non mi stanco di ripetere che una chiesa che voglia dirsi cristiana, seppure non obbligata ad organizzare delle comuni in cui si vive insieme, è chiamata a vivere lo stile del “come se...” cioè, uno stile di vita in cui si considera il mio come appartenente anche agli altri. E questo proprio nell’ottica della ridistribuzione. Sarebbe sbagliato leggere questo passo in chiave mistica pensando che gli apostoli disprezzassero il materiale come tale, per passare il tempo in preghiera. C’è un’importanza del materiale, e c’è attenzione ai bisogni materiali dei “bisognosi”, quelli che hanno di meno, quelli che sono poveri; e c’è la disponibilità, spontanea, da parte dei ricchi, come questo Giuseppe detto Barnaba, di vedere i propri beni, per sovvenire ai bisogni degli altri. Chiediamoci dunque cosa siamo disposti a vendere di nostro per aiutare i nostri fratelli nel bisogno.
Il primo punto che vorrei sottolineare è quindi questo: non possiamo dirci cristiani se non abbiamo scelto ed adottato uno stile di vita comunitario, che considera la propria casa, la propria auto, i propri libri, il proprio computer ecc. come anche degli altri.
Ma se all’inizio del capitolo abbiamo un’illustrazione di cosa sia la vera vita comunitaria, la seconda parte ci mostra quale sia la sua negazione.

2. Perché dare?

L’episodio tragico di Anania e Saffira ci fa riflettere però su un fatto importante: non conta tanto ciò che si fa, quanto si dà e in che misura si contribuisce alla vita comunitaria, ma come lo si fa e con quali motivazioni. Se ci appare chiaro che Anania e Saffira sono puniti per aver mentito, potremmo ipotizzare più ragioni per capire ciò che li ha spinti a farlo. Ragioni che potrebbero anche non escludersi e contribuire tutte a spiegare il loro comportamento. Forse volevano farsi belli agli occhi degli altri discepoli e degli apostoli. Come Giuseppe ha compiuto un atto che potrebbe sembrare eroico, quello di vendere addirittura una propria proprietà per dare alla vita comune, così anche loro, tentati dall’idea di spiccare in mezzo al gruppo per la loro prodigalità, potrebbero aver pensato di mettersi in mostra facendo credere di aver dato più di quanto non erano realmente disposti a dare. Forse, ancora, sono rimasti attratti dallo stile di vita comunitario dei discepoli, hanno pensato che far parte di questo gruppo affiatato ed unito avrebbe potuto essere interessante anche per loro. Però all’attrazione verso il gruppo non corrispondeva altrettanta disponibilità nel dare, quindi sono pronti a dare, ma con delle riserve. Quindi si proclamano parte del gruppo pur volendo conservare le loro individualità. Tutto ciò sarebbe perdonabile. Sarebbe perdonabile però è grave. Ed è importante dirlo in un’epoca come la nostra in cui l’apparenza conta tanto. In cui siamo tutti pronti a donare, ed altrettanto pronti a farlo sapere. In cui pensiamo di risolvere problemi catastrofi donando un euro via sms, o regalando qualche spicciolo, senza essere pronti a sacrificare noi stessi.

3. Timore di Dio.
In cosa è così grave il peccato di questa coppia? La gravità del peccato non sta tanto nel fatto di aver mentito agli apostoli, di essersi voluti distinguere o di aver dato solo in parte. Non era obbligatorio entrare a fare parte di quella comunità, né era obbligatorio vendere tutto. La gravità sta nel pensare che Dio sia così piccolo ed infimo da non rendersi conto di quello che facciamo. Anania e Saffira hanno mentito allo Spirito Santo nel senso che hanno sottovalutato la presenza di Dio nella comunità cristiana. Non si sono resi conto che quello stile comunitario che li attirava, quel condividere per i bisogni di tutti, non era il frutto di un progetto ideologico, come se ne trovano tanti nella storia. Era il frutto del miracolo dell’opera dello Spirito Santo nelle vite di quei discepoli. Pensare di poter mentire in quel contesto comunitario, significa sottovalutare il Dio che si ha davanti, che vede tutto. Significa pensare che si possa rispondere a Dio: “Sì, ma...”, avendo verso di lui e la sua chiamata delle riserve, e pensando inoltre che queste possano rimanere segrete.
Claude Levi Strauss in un suo saggio che lessi alcuni anni fa descriveva e spiegava alcuni episodi simili, che avevano luogo in comunità primitive. Raccontava che alcune persone morivano in presenza di uno sciamano che gettava su di loro il discredito per aver contravvenuto a qualche precetto. E spiegava psico-somaticamente questi fenomeni, dicendo che la sensazione di colpa e di spavento prodotta dalla censura collettiva era talmente forte da produrre l’arresto cardiaco. Si sarebbe tentati di fornire una spiegazione simile nel caso di Anania e Saffira, ma credo non sia una buona idea. Non siamo chiamati ad edulcorare i passi del Nuovo Testamento. Questo passo, rispetto agli infiniti passi che ci ricordano la grazia infinita di Dio, la sua bontà, la sua pazienza, servono anche a ricordarci che ferme restando queste sue qualità, non ci si può comportare verso Dio con leggerezza, e che la doppiezza gli è insopportabile. Dio va preso sul serio e prendersi gioco di Lui ha conseguenze gravi ieri come oggi. Il passo si conclude ricordando che la comunità fu presa da gran timore. Altre volte abbiamo concluso notando che la comunità cresceva, che c’era entusiasmo ed approvazione. È importante che una comunità nascente impari a considerare che non tutto è lecito, che non tutto va bene e che sulla scia dell’entusiasmo delle esperienze carismatiche, comunitarie e miracolistiche rimane un fondamentale timore di Dio, che è imprescindibile per una fede vera.
Ma allora il Dio presentato qui è cattivo, contravviene all’amore che annuncia altrove? No, ma l’amore e la grazia non vanno senza il timore che si deve all’Altissimo, altrimenti diventano grazia a buon mercato e stupidità. Gesù disse che l’unica cosa che non si poteva perdonare agli uomini era la bestemmia contro lo Spirito Santo. Cioè la resistenza deliberata alla sua azione, ed il tentativo di prendersi gioco di lui, sotto le apparenze della fede più sentita, come quella che porta a donare poderi per la comunità di Dio. Ma proprio quest’azione apparentemente eroica e magnanima segna la condanna di questa coppia, concorde nell’ingannare lo Spirito.
Un simile passo oggi ci è ancora più utile dei tanti passi in cui si parla dell’amore. Il nostro mondo è pieno di amore apparente, di missioni, organizzazioni, associazioni, movimenti e quant’altro che in qualche modo dicono – e spesso lo fanno sinceramente – di praticare forme svariate di aiuto in qualche modo riconducibili all’idea dell’amore. Ma nel mondo che sottolinea giustamente la laicità, degenerando spesso nel laicismo, o che diffida del soprannaturale degenerando spesso nel materialismo leggere un passo di un Dio che vuole essere preso sul serio, e non come l’orpello per abbellire le nostre azioni apparentemente misericordiose ci fa bene, e ricorda della nostra posizione di creature davanti al Creatore.
Pratichiamo quindi la vita comunitaria nel mondo più schietto possibile, consapevoli che la linfa che la anima non può essere in altri che in quel Dio che ha fondato la comunità.

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