giovedì 23 luglio 2015

Il buon samaritano, alias Le domande di un dottore della legge - ignorante della legge...

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 I titoletti che troviamo sopra i paragrafi delle nostre edizioni della Bibbia hanno un’influenza determinante sul nostro modo di ricordare i passi della Scrittura, e di conseguenza anche sul modo di interpretarli. Così il “Buon Samaritano” è un personaggio arcinoto a qualunque persona comune di ogni paese che abbia una qualche cultura cristiana, mentre il dottore della legge che ha spinto a Gesù a raccontare questa parabola, passa in secondo piano. Premesso che il mio sogno è una Bibbia senza titoli, mi permetto in una predica di dare un mio titolo al passo, chiamandolo: Domande e risposte di un dottore della Legge che non capiva la legge…

La parabola infatti si inserisce in un contesto ben preciso: Gesù ha commentato il ritorno dei 72 discepoli da una missione piena di successo, dalla quale i discepoli sono tornati entusiasti (Luca 10, 17). Ha spiegato loro che il regno di Dio è sceso sulla terra e che hanno il potere di sconfiggere i demoni, cioè di liberare il mondo con il vangelo, quindi di possedere e di annunciare una salvezza eterna. Satana crolla come un lampo (v. 18), la sua sorte è segnata ed il suo potere è sconfitto, benché egli continui ad agire, e la gioia principale dei protagonisti della missione deve essere quella di avere la certezza che “i loro nomi sono scritti nei cieli” (v. 20). Come se tutto ciò non bastasse, Gesù, in un momento di particolare pienezza spirituale, si lancia in un grido di lode perché queste rivelazioni sono state date a dei piccoli e non a degli intellettuali, e rivoltosi ai discepoli li dichiara beati per aver visto cosi che tanti in passato hanno bramato vedere, senza averne avuto la possibilità. In questa riunione privata tra Gesù e i discepoli interviene uno che non è certo un piccolo, che è uno di quegli intellettuali che probabilmente non ha capito niente e che, sebbene con rispetto (“maestro…”), vuole mettere Gesù alla prova. Questo è il contesto in cui nasce la parabola: un dottore che forse in cattiva fede, forse perché realmente vuole capire di più commenta il disvelamento dei misteri ai discepoli.

  1. La prima domanda del dottore: Che devo fare per ereditare la vita eterna?
Il dottore della legge ha sentito che i nomi di questi “piccoli” sono scritti nei cieli, e che a loro sono rivelate cose inaudite. Ma lui allora, che è un teologo, uno specialista, uno studioso delle Scritture, e che non pensa proprio di essere da meno di questi piccoli, visto che secondo quanto dice Gesù le “cose” sono nascoste agli intellettuali come lui e rivelate ai piccoli, cosa deve fare per ereditare la vita eterna? Dov’è la novità della dottrina di Gesù? Cosa dice di nuovo rispetto alle scuole rabbiniche del tempo, alle correnti teologiche ebraiche che inevitabilmente, come tutte le persone di fede, si chiedono: cosa dobbiamo fare?
            La risposta di Gesù mette a sua volta alla prova il dottore della legge, e quindi risponde con un’ulteriore domanda: Cosa c’è scritto nella legge? Immediatamente il dottore risponde con i passi classici che un pio ebreo del tempo non poteva non sapere, e che probabilmente condensavano il credo ebraico del secondo tempio: Deuteronomio 6 e Levitico 19. E’ una risposta molto interessante se si pensa che è esattamente la stessa che Gesù dà ai farisei in un episodio diverso da questo che troviamo nel vangelo di Matteo (Mt 22, 34-40). Gli chiedono quale sia il grande comandamento e Gesù risponde con le stesse parole del dottore della legge. Ne deduciamo che dal punto di vista teorico il dottore e Gesù condividono gli stessi riferimenti, le stesse dottrine e trovano in questi comandamenti il condensato di tutte le Scritture, ed il mezzo per salvarsi. Il punto su cui differiscono è che per Gesù questi comandamenti sono realmente applicati e vissuti. La vita di Gesù è incentrata sull’amore per Dio e per il prossimo, e la missione dei settanta è stata ugualmente dettata da questi: disposti a viaggiare in condizioni di povertà estrema, lasciando le loro case e le loro abitudini, hanno servito, guarito e invitato a ricevere il regno interi villaggi. Cioè hanno amato il prossimo e Dio! Non si sono inerpicati in questioni complesse ed interminabili, forse sulle genealogie, forse sui modi migliori per divorziarsi da una donna di cui erano stanchi, o ancora sul funzionamento delle schiere angeliche (tema tipico nella coeva letteratura apocalittica), ma si sono concentrati sul vivere amando.
            Attenzione perché qui non si condanna affatto lo studio della Scrittura, la teologia o l’approfondimento: si condanna uno studio sterile che porta a sapere bene le risposte a domande fondamentali, che tuttavia non comportano alcun cambiamento nella vita di chi le pone e le risponde. C’è una vera teologia che porta ad amare Dio ed a servire meglio il prossimo; c’è una falsa teologia che porta a porre infinite questioni e a darsi delle risposte che ritornano ciclicamente alle domande stesse senza incidere sulla vita. Il dottore è dottore di questa falsa teologia, e quindi continua a domandare.

  1. E chi è il mio prossimo?
Nuovamente Gesù non risponde direttamente, ma indirettamente, raccontando una parabola e poi ponendo una domanda. Questa straordinaria parabola è quindi la chiave interpretativa per rispondere alla domanda del dottore, e non una storia a se stante su persone di etnia diversa. “Chi è il mio prossimo?”, si chiede il dottore e Luca commenta: “volendo giustificarsi”. Quindi sa bene che deve amare, ma non sa chi. Si tratta palesemente di una scusa, motivata forse anche dal fatto che i 72 discepoli si sono recati in villaggi e città in cui hanno amato e servito non solo ebrei, ma proprio tutti. In un mondo multietnico fatto di romani, samaritani, giudei, greci, persone di passaggio di varia etnica, chi è il mio prossimo? – chiede il dottore. La risposta di Gesù è perfettamente coerente con la propensione del dottore a speculare anziché vivere la legge: dopo aver illustrato la storia mostra al dottore della legge che la domanda da porsi non è chi sia il prossimo. Perché tutti teoricamente sarebbero prossimi di quel tale, anonimo che si è trovato derubato e picchiato. La domanda da porsi è: come essere il prossimo di chiunque!
            Non sapranno essere dei veri prossimi coloro che stabiliscono chi sia il loro prossimo su base religiosa, come se capaci di amore fossero solo i rappresentanti di una certa religione. Il sacerdote ed il levita, che venendo da Gerusalemme probabilmente hanno adempiuto ai loro doveri cultuali, servendo nel tempio come previsto dalla legge, ma questa loro partecipazione alle pratiche religiose non li rende capaci di amore. Come si può essere esperti della legge senza viverla, così si può aderire ad un sistema religioso che ci rendeinformati su Dio, ma non formati da Dio. E’ possibile che il sacerdote ed il levita si facessero scrupoli nel toccare un cadavere, ma esistevano dispense speciali in merito; più probabile è che si sentissero a posto avendo svolto i loro obblighi, e avessero tralasciato l’amore volutamente.
            Non sono prossimi coloro che fondano la prossimità su base etnica. Qualche paragrafo prima del passo in questione abbiamo letto che i samaritani rifiutarono di ospitare Gesù perché andava a Gerusalemme, e che i discepoli volevano far scendere per vendetta un fuoco dal cielo per consumarli. Cosa aspettarsi dunque da dei samaritani? La parabola di Gesù ci fa vedere che l’amore ed il sapere essere prossimo, viene proprio da colui da cui non ci si aspetta niente, che non vale niente e che è visto come un non prossimo.
            Non basta allora dire che dobbiamo amare. Dobbiamo imparare ad essere prossimi facendo crollare qualsiasi tipo di barriera religiosa, etnica o nazionale che potrebbe condizionare il nostro modo di essere attenti a chi ci è intorno, quindi ai nostri prossimi. Inoltre, impariamo che quando meno ce lo aspetteremo sarà nostro prossimo qualcuno che per noi non valeva niente, perché i muri ideologici che avevamo costruito sulla sua identità ce lo facevano vedere come un “non-prossimo”. Noi evangelici potremmo avere preclusioni sui cattolici, sui musulmani, sui buddisti, sugli atei, sui testimoni di Geova, sui mormoni… Altri avranno preclusioni sui comunisti, sui berlusconiani, ed altri ancora sugli extracomunitari. Forse proprio un rappresentante di una di queste categorie ci stupirà sapendo essere nostro prossimo, perché avrà compassione di noi.
            Dobbiamo allora imparare ad essere prossimi, e a scoprire in altri dei prossimi inaspettati. Perché nessuna creatura di Dio non è prossima (cioè vicina) alle altre creature di Dio.

  1. Va e fa anche tu la stessa cosa.
Questa incredibile riflessione sul amare Dio ed il prossimo, se letta in una chiesa evangelica nel 2015 suscita tra le domande poste anche altre domande. Ad esempio ci si potrebbe chiedere: ma la riposta di Gesù, non sta proponendo un qualche tipo di salvezza per opere? Se oggi qualcuno chiedesse cosa devo fare per ereditare la vita eterna, noi risponderemmo come ha riposto Gesù? Cioè, fa queste cose e vivrai, e infine: “Va e fa la stessa cosa”, ovviamente per ereditare la vita eterna? Aggiungiamo un passo: alla domanda posta dal dottore fa eco un’altra domanda che troviamo nel libro degli Atti, quindi sempre da un libro scritto da Luca, posta agli apostoli dal carcerieri di Filippi: “Che devo fare per essere salvato?” E gli apostoli risposero: “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e tutta la tua famiglia!” (Atti 16,30). Cosa è successo? E’ cambiato il messaggio oppure Gesù e gli apostoli dicono la stessa cosa? Direi che c’è qualche cambiamento ma c’è una fondamentale permanenza del messaggio. Diciamo innanzi tutto che la domanda del carceriere è sincera mentre quella del dottore è fatta per mettere alla prova; detto questo, prima della morte di Gesù è normale che il dibattito si svolga sul  terreno comune costituito dalla legge, mentre in un contesto pagano si annuncia un Dio fatto uomo morto e risuscitato, oggetto della fede. Notiamo tuttavia che le risposte non sono poi così diverse. Cosa significa in fondo amare Dio se non avere fede in lui, abbandonarsi totalmente a lui, avendo certezza dell’esistenza di un qualcuno che non si vede, ma di cui lo spirito attesta l’esistenza? Una vera fede, una fede che salva non può essere una semplice credenza fredda e razionale in un essere supremo; è una fede fatta di amore, di un’energia profonda che condiziona la vita intera. Ma se Gesù è il Signore, non è diverso dire ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, anima e spirito, e Credi in Gesù! Per altro, la fede che annunciano gli apostoli non va senza l’amore del prossimo, perché una fede senza opere è morta. Vale la pena notare un fatto che spesso passa in secondo piano: il carceriere di Filippi dopo aver creduto ed essersi battezzato, cura le piaghe degli apostoli e dà loro da mangiare! Non è questo amore per il prossimo?

Conclusione
La risposta alla domanda più importante per ogni essere umano non si esprime in un unico modo: si declina in modi diversi a seconda di chi la pone e del tempo in cui è posta, ma ha una stessa sostanza che è Gesù: amare Gesù ed il prossimo, credere in Gesù e nel suo messaggio di amore per il prossimo, capendo che senza questo amore non siamo niente.

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