Io non so pregare...
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La settimana scorsa, di mattina presto, ero seduto sul divano con mio figlio che cercavo di avvicinare alla preghiera e gli ho detto: Gilles vuoi pregare ? E lui: “Papà, ma io non so pregare…”. Detto da un bambino di 4 anni è una risposta spontanea e normale, che probabilmente la dice lunga sulla complessità della preghiera. Pensiamo spesso che i bambini siano vicini a Dio, il vangelo ci dice che chi non diventa come un bambino non entra nel regno dei cieli, eppure neanche per un bambino pregare è immediato.
In altre occasioni mi è capitato di andare a pranzo da persone che sapevano bene che io e mia moglie abbiamo l’abitudine di pregare e ci hanno chiesto di farlo prima di cominciare a mangiare; dopo diverse volte abbiamo provato ad invitarli a pregare loro stessi per ringraziare per quello che avevamo da mangiare, ma la risposta è stata simile a quella di mio figlio: “Ma noi non sappiamo pregare…”
Il vangelo di Luca, dopo aver presentato un episodio in cui Gesù dice esplicitamente che la cosa migliore da fare nella vita non è affannarsi, ma “stare ai piedi di Gesù ed ascoltarlo”, presenta un passo in cui un discepolo, probabilmente per imparare meglio a stare ai piedi di Gesù dice: “Insegnaci a pregare”.
E’ una domanda che attraversa il tempo e che è tanto più attuale in un epoca materialistica come la nostra. Come pregare? Cosa dire? Da dove cominciare. Ed è una domanda molto attuale anche per persone che vanno in chiesa da 20, 30, 40 anni o più e che hanno una vita di preghiera intensa: dopo tutti questi anni di preghiera, cosa dire ancora, come pregare?
La risposta di Gesù che troviamo sia nel vangelo di Matteo che in quello di Luca non vuole essere una formula da ripetere a memoria, ma uno schema sul minimo indispensabile che deve esserci in ogni preghiera. Ci potrà forse essere di più, ed in effetti nel vangelo di Matteo c’è più che in quello di Luca, ma non di meno. Ed è molto interessante leggere le due versione diverse: Luca ci invita ad essere ancora più essenziali, ma le poche cose che dice sono un riassunto di richieste già fatte dai profeti dell’Antico Testamento ed hanno una portata molto vasta.
In entrambi questi testi, Dio è chiamato padre non in quanto genitore che crea, che genera biologicamente, ma il padre che adotta, che ha acquistato un popolo e che è padre e redentore anche se non c’è riconoscimento della discendenza da Abramo o da Israele.
Il senso che Gesù dà all’invocazione del padre è proprio questo, ed è fondamentale capire questo per capire cosa sia la preghiera.
La preghiera non è l’unione mistica con una forza superiore di cui non si conosce l’identità. Non è neppure l’invocazione di un Dio distante. Poter pregare significa potersi sentire in una relazione con Dio di tipo padre-figlio adottivo, che implica il riconoscersi orfani spirituali, privi di famiglia e necessitosi di un padre che sia nostro redentore. Senza questo non c’è preghiera.
Ci sono persone che usano tecniche di meditazione che potranno essere simili a preghiere, altre che accumulano richieste su richieste magari unite a doni ed offerti verso una divinità per poterne ottenere il favore, altre ancora che si esaltano in stati di trance: tutto ciò non è la preghiera cristiana che nasce ed esiste solo grazie ad una relazione: quella con un Dio vivente a cui ci si può rivolgere come ad un padre, che è venuto a cercarci e ad adottarci.
Non ho parlato ancora di “quotidiano” perché è uno di quei termini che mandano in crisi i traduttori, essendo usato solo qui nei vangeli e mai in altri testi greci. Un senso potrebbe essere: necessario, ciò quel pane per cui possiamo sopravvivere. Un altro potrebbe anche essere futuro, cioè quel pane che mangeremo in futuro tutti insieme, banchettando con il Signore Gesù nel regno dei cieli. In questo senso ogni agape cristiana è un’anticipazione di quel banchetto celeste, che effettivamente sarà anche motivo di sazietà per chi non aveva cibo.
Potrei ricordare brevemente che oggi 8 milioni di persone l’anno muoiono di fame, e 840 milioni di persone soffrono di malnutrizione. La causa è la povertà cronica. Se il nostro pane è veramente nostro e non “mio” dobbiamo veramente in ogni nostra preghiera, pregare per questi dati atroci in un mondo che ha in abbondanza, ed aggiungere alla preghiera l’azione.
Siamo dunque invitati a confessare i nostri peccati e a considerare il perdono che accordiamo agli altri, come una semplice imitazione, minima, di quello che Dio ha fatto per noi. Se Dio ci ha perdonati, come possiamo non condividere il suo perdono? Il nostro perdono agli altri non è certo una condizione per essere perdonati, ma una conseguenza del perdono iniziale ricevuto da Dio.
L’esempio finale che invita a chiedere, controbilancia l’essenzialità delle preghiera e invita ad insistere, pur rimanendo semplici.
La settimana scorsa, di mattina presto, ero seduto sul divano con mio figlio che cercavo di avvicinare alla preghiera e gli ho detto: Gilles vuoi pregare ? E lui: “Papà, ma io non so pregare…”. Detto da un bambino di 4 anni è una risposta spontanea e normale, che probabilmente la dice lunga sulla complessità della preghiera. Pensiamo spesso che i bambini siano vicini a Dio, il vangelo ci dice che chi non diventa come un bambino non entra nel regno dei cieli, eppure neanche per un bambino pregare è immediato.
In altre occasioni mi è capitato di andare a pranzo da persone che sapevano bene che io e mia moglie abbiamo l’abitudine di pregare e ci hanno chiesto di farlo prima di cominciare a mangiare; dopo diverse volte abbiamo provato ad invitarli a pregare loro stessi per ringraziare per quello che avevamo da mangiare, ma la risposta è stata simile a quella di mio figlio: “Ma noi non sappiamo pregare…”
Il vangelo di Luca, dopo aver presentato un episodio in cui Gesù dice esplicitamente che la cosa migliore da fare nella vita non è affannarsi, ma “stare ai piedi di Gesù ed ascoltarlo”, presenta un passo in cui un discepolo, probabilmente per imparare meglio a stare ai piedi di Gesù dice: “Insegnaci a pregare”.
E’ una domanda che attraversa il tempo e che è tanto più attuale in un epoca materialistica come la nostra. Come pregare? Cosa dire? Da dove cominciare. Ed è una domanda molto attuale anche per persone che vanno in chiesa da 20, 30, 40 anni o più e che hanno una vita di preghiera intensa: dopo tutti questi anni di preghiera, cosa dire ancora, come pregare?
La risposta di Gesù che troviamo sia nel vangelo di Matteo che in quello di Luca non vuole essere una formula da ripetere a memoria, ma uno schema sul minimo indispensabile che deve esserci in ogni preghiera. Ci potrà forse essere di più, ed in effetti nel vangelo di Matteo c’è più che in quello di Luca, ma non di meno. Ed è molto interessante leggere le due versione diverse: Luca ci invita ad essere ancora più essenziali, ma le poche cose che dice sono un riassunto di richieste già fatte dai profeti dell’Antico Testamento ed hanno una portata molto vasta.
- Pare nostro…
In entrambi questi testi, Dio è chiamato padre non in quanto genitore che crea, che genera biologicamente, ma il padre che adotta, che ha acquistato un popolo e che è padre e redentore anche se non c’è riconoscimento della discendenza da Abramo o da Israele.
Il senso che Gesù dà all’invocazione del padre è proprio questo, ed è fondamentale capire questo per capire cosa sia la preghiera.
La preghiera non è l’unione mistica con una forza superiore di cui non si conosce l’identità. Non è neppure l’invocazione di un Dio distante. Poter pregare significa potersi sentire in una relazione con Dio di tipo padre-figlio adottivo, che implica il riconoscersi orfani spirituali, privi di famiglia e necessitosi di un padre che sia nostro redentore. Senza questo non c’è preghiera.
Ci sono persone che usano tecniche di meditazione che potranno essere simili a preghiere, altre che accumulano richieste su richieste magari unite a doni ed offerti verso una divinità per poterne ottenere il favore, altre ancora che si esaltano in stati di trance: tutto ciò non è la preghiera cristiana che nasce ed esiste solo grazie ad una relazione: quella con un Dio vivente a cui ci si può rivolgere come ad un padre, che è venuto a cercarci e ad adottarci.
- Sia santificato il tuo nome
- Che nelle nostre vite il nome di Dio sia santificato, con un comportamento che rispecchi Dio.
- Che il nostro comportamento porti a santificare in modo tale che i popoli si mettano ad acclamare il Signore
- Venga il tuo regno
- Nelle conversioni dei nuovi sudditi che vogliono entrare nel regno: ogni volta che preghiamo per qualcuno, perché si converta dobbiamo dire: “venga nella sua vita il tuo regno!”.
- Negli sforzi missionari che annunciano il vangelo nelle diverse parti del mondo portando luce nelle tenebre, e illuminando le realtà già avvenute: Gesù è seduto alla destra di Dio! Pregando per i popoli diciamo: “Venga il tuo regno”:
- Fra noi ed in noi, quando facciamo vivere i valori del regno e nella nostra vita prendendo il giogo dolce e leggero di Cristo.
- Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano
Non ho parlato ancora di “quotidiano” perché è uno di quei termini che mandano in crisi i traduttori, essendo usato solo qui nei vangeli e mai in altri testi greci. Un senso potrebbe essere: necessario, ciò quel pane per cui possiamo sopravvivere. Un altro potrebbe anche essere futuro, cioè quel pane che mangeremo in futuro tutti insieme, banchettando con il Signore Gesù nel regno dei cieli. In questo senso ogni agape cristiana è un’anticipazione di quel banchetto celeste, che effettivamente sarà anche motivo di sazietà per chi non aveva cibo.
Potrei ricordare brevemente che oggi 8 milioni di persone l’anno muoiono di fame, e 840 milioni di persone soffrono di malnutrizione. La causa è la povertà cronica. Se il nostro pane è veramente nostro e non “mio” dobbiamo veramente in ogni nostra preghiera, pregare per questi dati atroci in un mondo che ha in abbondanza, ed aggiungere alla preghiera l’azione.
- Perdonaci i nostri peccati perché anche noi perdoniamo
Siamo dunque invitati a confessare i nostri peccati e a considerare il perdono che accordiamo agli altri, come una semplice imitazione, minima, di quello che Dio ha fatto per noi. Se Dio ci ha perdonati, come possiamo non condividere il suo perdono? Il nostro perdono agli altri non è certo una condizione per essere perdonati, ma una conseguenza del perdono iniziale ricevuto da Dio.
- Non ci esporre alla tentazione
L’esempio finale che invita a chiedere, controbilancia l’essenzialità delle preghiera e invita ad insistere, pur rimanendo semplici.
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